Il Padre Nostro

don Franco Barbero

 

da "cdb informa" n° 42 dicembre 2008

 

sbobinatura non rivista dall’autore di un incontro con i genitori del “Gruppo di catechesi Primavera”

 

 

Interpellato sul ‘Padre nostro’ ho pensato di proporvi una riflessione aperta, suggerendo anche qualche traccia di spiritualità, di approfondimento, di studio. Farò una mescolanza, lasciandovi anche qualche riferimento bibliografico. Ce ne sono all’infinito. Specialmente in questi ultimi 20 anni sono stati compiuti molti nuovi studi. Parlando del Padre nostro, prima di tutto non c’è Gesù che insegna una preghiera, elemento questo molto importante da annotare, ma c’è Gesù che prega. Sarebbe assolutamente improprio se noi sradicassimo gli insegnamenti di Gesù dalla sua pratica di vita. Bisogna sempre tenere presente che Gesù normalmente insegna ciò che vive, tant’è che nell’ebraismo parole e fatti vengono indicati con la stessa parola. Il buon maestro, che è un maestro di vita e non di dottrina, è colui nella cui esistenza non si legge dissonanza fra ciò che vive e ciò che insegna. Questo è invece possibile nella cultura del didaskalos cioè dell’insegnante, colui che svolge la professione d’insegnare, ma non ha invece il compito di testimoniare. Nella cultura greca nasce ed emerge con vigore la figura di chi spande dottrina, semina insegnamenti, ma non  sempre è quello che fa crescere, che testimonia; molte volte c’e’ una dissociazione. Nell’ebraismo si dicono cattivi maestri, cattivi profeti quelli che insegnano, supponiamo, bene ma non vivono coerentemente con ciò che insegnano. Questo è abbastanza presente in tutte le scritture del Primo Testamento, quello che noi chiamiamo l’Antico Testamento.

Gesù è una persona che insegna a pregare, vedremo in che contesto, ma prima di tutto è uno che prega. Non potrò ripercorrere la preghiera di Gesù in tutti i vangeli, dove ricorre spessissimo, sarebbe troppo lungo. Ma voi certamente ricordate che c’è innanzitutto Gesù che prega da solo. In Marco, Matteo, Luca,  seppur con accentuazioni diverse, viene detto che “Gesù si ritira da solo a pregare” e viene ricordata come centrale l’ora della sua grande preghiera nel Getzemani. In Lc.10 Gesù prega e ringrazia Dio quando i discepoli tornano ed hanno operato bene. Dopo i racconti dei cosiddetti “miracoli”, cioè gli interventi amorevoli di Gesù, questi ringrazia Dio. C’è un altro elemento: Gesù che va alla sinagoga. Non ci andava per fare chiasso o contestazioni, ci andava per pregare, per ascoltare la parola di Dio. Questo è un dato estremamente presente nei vangeli. Gesù è una persona ancorata nella relazione con Dio, egli sa bene di essere una creatura, sa bene che la sua vita dipende totalmente da Dio. In Marco 10,18, quando qualcuno vuole renderlo eguale a Dio, lui dice “solo Dio è buono” . Vi pregherei di tenere molto presente questo contesto, perché non ha senso tutto l’insegnamento di Gesù sulla preghiera senza il Gesù che prega. Quando pensiamo alla nostra vita di preghiera e ne parliamo ai nostri figli, bisogna prima di tutto far vedere il Gesù concreto, storico che prega. Voi genitori insegnate a me quanto poco valgono le parole quando non sono accompagnate dalle cose che voi fate. Nella nostra vita valgono molto di più le nostre azioni quotidiane  che non le parole che diciamo. Noi siamo sostanzialmente misurabili con questo criterio nella nostra esistenza quotidiana e quindi sarà bene sempre partire da questo dato storico, che troviamo in tutte le persone vive e testimonianti della Bibbia.

Quanti Padre nostro abbiamo? Nelle origini cristiane ne abbiamo tre. Il Padre nostro non c’è in Marco, non c’è nel vangelo tardivo di Giovanni; c’è in Matteo, in Luca e in uno scritto che si chiama Didachè, la dottrina dei 12 apostoli, un testo molto legato al vangelo di Matteo, che per molti secoli in alcune parti della cristianità fu letto come testo della Bibbia. Il manoscritto fu ritrovato nel 1873, conserva materiali antichissimi che riportano anche tradizioni precedenti ai vangeli sinottici. Lo si potrebbe definire un manuale di norme etiche e liturgiche scritto per una comunità di seguaci di Gesù molto legati all’ambiente giudaico. Nell’anno 144 quando fu condannato Marcione, probabilmente è nata la prima idea per formare un canone: abbiamo avuto bisogno di secoli per capire quali libri dovevamo ammettere, quali dovevamo escludere. I criteri non sono stati sempre tutti soddisfacenti.

Noi abbiamo in realtà tre Padre nostro non uguali, ma sostanzialmente identici, le cui varianti sono interessanti. Vi dirò subito che Matteo e la Didachè sono più vicini e Luca, il più breve, è il più distante, ma c’è una convergenza sostanziale. C’è chi dice che ci sarebbe stato un precedente testo aramaico da cui hanno attinto i due vangeli e la Didachè, è probabile. Gesù era forse bilingue, nel senso che comprendeva l’ebraico ma parlava l’aramaico come parlava la gente, può darsi che conoscesse il greco: il greco era la lingua parlata in tutto quell’universo. Altri dicono che, al di là del testo aramaico, noi dobbiamo fare i conti, oggi, con tre testi greci. Se noi mettiamo in sinossi i vangeli di Luca, Matteo e la Didachè rileviamo subito che il testo di Matteo è il più lungo, il testo di Luca è il più conciso; ci sono sostanziali convergenze, alcune divergenze e la Didachè’ aggiunge alla fine un testo che non c’è da nessuna alta parte: “Perché tuo è il regno, e la gloria per tutti i secoli”,  versetti che sono stati introdotti in qualche liturgia.

Vi leggo i due Padre nostro, ve li leggo dal testo greco e traduco. Matteo 6,7: “Ora pregando, non blaterate come i pagani, infatti pensano che saranno esauditi per la loro loquacità. Non somigliate dunque ad essi, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che voi gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo anche in terra. Dacci oggi il pane nostro ((epiousion: la parola non si può tradurre) e rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori e non ci lasciare entrare nella prova, ma liberaci dal male, o dal maligno”. Questa è la traduzione di quello di Matteo. Quello di Luca 11,1:E avvenne che mentre era in un luogo a pregare. come ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: ‹Signore insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli›. Disse loro: ‹Quando pregate dite: Padre sia santificato il tuo nome, venga il regno tuo, dacci ogni giorno il pane nostro (epiousion) e rimetti a noi i nostri peccati, perché anche noi rimettiamo a uno che deve a noi e non ci lasciare entrare nella prova›”. La Didachè’: “Padre nostro che sei in cielo, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la volontà tua come in cielo così in terra. Dacci oggi il pane nostro (epiousion) e rimetti a noi il nostro debito, come noi lo rimettiamo ai nostri debitori e non ci lasciare entrare nella prova, ma liberaci dal male, perché tuo è il regno e la gloria per tutti i secoli”.

Matteo, colloca il Padre nostro a livello ermeneutico, interpretativo, dentro il discorso della montagna. Non bisogna mai dimenticare che quando viene scritto il vangelo di Matteo, il cristianesimo non è ancora nato. Sono un gruppo di giudei, discepoli del nazareno, totalmente all’interno dell’ebraismo. Questo animatore della comunità, che noi chiamiamo Matteo, nel discorso della montagna dice: da Gesù noi dobbiamo prendere i tre grandi insegnamenti, che sono poi i tre pilastri dell’ebraismo: l’elemosina, che era fare la giustizia secondo il tempo di allora, il digiuno e la preghiera. Ma vedendo le deviazioni interne all’ebraismo, Matteo dice: non fate come fanno taluni che credono di essere esauditi per le lunghe preghiere. In polemica con alcune frange del fariseismo che facevano l’elemosina e digiunavano per farsi vedere e contro chi credeva che pregando chissà come tu ti salvassi, dà un insegnamento polemico ma sintetico: voi dunque pregate con questo spirito, in questo modo, non tanto suggerendo le preghiere, ma suggerendo la profondità del sentimento: “Padre nostro che sei nei cieli…”.

Luca invece ha fatto delle concisioni, perché per lui, “sia fatta la tua volontà” non esiste, come non esiste “liberaci dal male o dal malvagio”. Luca ha un Padre nostro conciso talché, per un certo tempo, si pensò che Matteo fosse l’estensione testuale del più conciso Luca. Noi non saremo mai in grado di dire quale sia stato il Padre nostro uscito dalla bocca di Gesù. Mentre in Matteo ci sono sette domande, sette rilevanze, in Luca ce ne sono di meno. Per Matteo, che era ebreo, sette era il numero della completezza.

La parola Padre. ‘Padre’ è il cuore dell’ebraismo. Bisogna che noi la smettiamo di dire quello che, io nella mia giovinezza e i vecchi esegeti cattolici, dicevamo polemicamente, per ignoranza,  e cioè che solo Gesù ha parlato di Dio come padre, invece l’ebraismo no. Tutto l’ebraismo ha sempre pensato che di Dio è padre. Non solo l’ebraismo, ma le grandi religioni di tutto il bacino orientale spessissimo hanno pensato a Dio come un padre. La mania di essere sempre noi i primi della classe ci ha portato fuori strada. Oggi scopriamo, studiando le scritture dall’Antico Testamento ebraico, che ‘padre’ è un titolo molto ricorrente nell’ebraismo; è vero tuttavia che Gesù l’ha portato con particolari accentuazioni affettive, ma assolutamente non esclusive. Il simbolo paterno nella Bibbia non è un simbolo fisiologico-procreativo, è un simbolo amoroso, affettivo, protettivo. Ogni gruppo giudaico aveva qualche preghiera qualificante: “come il Battista ha insegnato insegnaci anche tu”. I farisei, i qumramiti, tutti avevano delle preghiere qualificanti, non come diverse religioni, ma come diversi gruppi all’interno della stessa religione. Era una originalità qualificante, un’identità di gruppo, non un’assoluta rottura con altri. “Padre nostro” è, nello stesso tempo, intimità e identità, è il padre che tu puoi pregare, come dirà Matteo, chiudendo l’uscio di casa tua, in segreto, ma è anche il simbolo di una comunità che prega insieme. Il Padre nostro di Matteo è chiaramente il segno di una comunità che lo dice anche insieme, è strutturato nei versetti greci in maniera eucologica. E’ proprio la maniera con cui l’ebreo strutturava le preghiere rituali del culto. Nell’idea ebraica del padre c’è il principio del limite. Il padre nella cultura ebraica è l’uomo dei no, colui che da una parte è un principio di vita, ma dall’altra ti dà il senso del limite. Nella Bibbia c’è ogni tanto il padre che dice: “questo non si fa”. Per l’ebraismo perdere il padre significa perdere il senso del limite. Ovviamente l’immagine di Dio padre, molti hanno riflettuto su ciò e nelle comunità di base molto lavoro si è fatto su questo tema, è diventata anche un Dio maschilista, un Dio che ha assunto i tratti maschili. Sappiamo quanto questo sia deviante rispetto al messaggio biblico, ma è chiaro che il messaggio biblico ha pure risentito di formulazioni e di interpretazioni altamente e profondamente radicate nella cultura patriarcale del tempo. Il Dio padre è stato scambiato spesso con il Dio maschio: guardate che passaggio tragico è stato fatto! Mentre il Dio padre è un Dio simbolico, il Dio maschio è diventato il Dio oppressivo delle donne, il Dio patriarcale. Oggi il rigore degli studi delle teologie femministe ha lumeggiato questi aspetti che sono stati devianti, che influenzano ancora oggi il percorso delle nostre chiese cristiane, anche se su questo si è fatto un grande lavoro. Non bisogna confondere il Dio padre con il Dio maschio, non fare del Dio padre un’immagine biologica. Dio giustamente può anche essere chiamato ‘madre’, perché abbiamo tante immagini materne di Dio nella Bibbia, ma non è, di nuovo, una madre biologica . “Padre nostro” è un padre che non è tutto mio, che allude al collettivo, al comunitario.

Che sei nei cieli. Per Matteo il regno non è il regno di Dio, ma il regno dei cieli. “Padre nostro che sei nei cieli” indica un padre che è vicino, ecco il simbolo paterno, ma che è anche imprendibile. Per l’ebraismo Dio si rende vicino. ma non è un Dio manipolabile, non posso padroneggiarlo, non posso forgiarlo. Per Matteo non bisogna usare troppo sovente il nome di Dio. Il cielo è il simbolo della vita di Dio non perché Dio abbia fatto la casa nel cielo, ma perché dal cielo è un Dio sovranazionale, è un Dio che guarda tutta l’umanità.  Belli i midrash ebraici che raccontano del Dio che ha liberato Israele, ma non si è fermato ad Israele, e tutte le volte che Israele vuole prendere Dio, Lui se la svigna. Il profeta Ezechiele dice che avevano imprigionato la shechinà, la presenza di Dio, nel tempio, e Dio fa venire alcuni arcangeli e dice: ‘portatemi altrove, perché dove mi imprigionano io scappo’. Questo sì che dovrebbe far pensare le nostre chiese!

 

Sia santificato il tuo nome. Io traduco così, ma il testo greco è qualcosa che non si può proprio tradurre (Agiasqhtw to onoma sou) Si potrebbe anche dire: ‘Che tu ti renda santo il tuo nome, che tu sia il santo riconosciuto come tale’. L’espressione greca è quasi intraducibile. La versione dei vescovi è interessante: ‘Che tutti ti riconoscano come Dio’, una bella traduzione; è un’interpretazione, però è bella. ‘Che tutti ti riconoscono come il Santo’: la traduzione della CEI, bella, ha molti significati, oppure: Che le nostre vite santifichino il tuo nome, riconoscano la tua presenza. Sono tutte traduzioni possibili. C’è quella: ‘sia santificato il tuo nome’ che è letterale, solo che ha un equivoco, molti pensano che questo proibisca la bestemmia, ma non è solo non bestemmiarlo, vuol dire riconoscere il suo amore, la sua presenza. ‘Che tutti ti riconoscano come Dio’ mi pare bella. Anche le altre: ‘Che tu renda santo il tuo nome, che tu sia il santo riconosciuto tale, che nel mondo ti riconoscano’. Noi chiediamo a Dio di manifestarsi a noi e al mondo per quello che Egli è, e solo lui può farlo in misura adeguata. Noi chiediamo che lui si faccia conoscere in qualche modo. “Sia santificato il tuo nome” è la prima invocazione; in Matteo ci sono tre invocazioni e quattro richieste, sette in tutto. In Luca invece vedremo che ne mancano due, perché non c’è: “sia fatta la tua volontà” e non c’è la conclusione. Le prime tre richieste riguardano Dio stesso, dalla quarta si passa a noi, perché nella struttura della preghiera ebraica, prima si benedice Dio e poi si fa i conti con la nostra umanità. Prima bisogna partire da Dio e poi si viene alle nostre necessità concrete. In tutte le preghiere bibliche è presente questo elemento caratteristico, normativo. “Sia santificato il tuo nome” l’abbiamo in Matteo, in Luca e nella Didachè, nella stessa precisa, identica traduzione greca.

Venga il tuo regno. Noi lo abbiamo in tutti e tre i Padre nostro. In modo diverso la regalità di Dio è al centro dei due Testamenti. Ma mentre nell’ebraico si usa di più il verbo, nel Secondo Testamento si userà di più ‘il regno di Dio’, la regalità di Dio. Mi preme chiarire quando nasce come concetto di  ‘regno di Dio’. Nel libro che scrissi insieme a Barbaglio “I diritti umani nella chiesa”, c’era un articolo interessante dello stesso Barbaglio che riassumo brevemente: che cosa aveva sperimentato Israele per lungo tempo nella sua storia? Aveva sperimentato il regno dei Re. Nel nord, regno d’Israele, i re si erano susseguiti fino al 721 quando la Siria mise fine al regno; nel 589 scompare il regno del sud. L’esperienza vera, tranne pochissime eccezioni, è stata un’esperienza tragica. Per Israele, aveva detto Samuele, il profeta che aveva accettato di ungere il primo re, c’era una speranza: che i re fossero non imparziali ma “parziali”. Il re, nella mentalità profetica, doveva essere una persona schierata. Ma come, non doveva essere l’amministratore della giustizia? Sì, ma proprio per questo doveva essere parziale, doveva stare esclusivamente dalla parte dei deboli, dei poveri. E cos’è successo invece ad Israele? Il re non solo non è parziale in questo modo, ma è parziale dall’altra parte. E allora i profeti Amos, Michea, Isaia e altri, perdono proprio le staffe e dicono: ‘voi re dite che siete imparziali, ma proprio questa è la vostra colpa: perché non proteggete l’orfano, la vedova e lo straniero. Ma voi siete parziali, perché state dalla parte dei potenti e fate combutta con loro’. Quando verranno scritti i libri dei Re, i libri profetici, anche quelli dei profeti minori e, soprattutto, quando verrà redatto il Deutoronomio, verrà fatta una constatazione, tradotta letterariamente in questi scritti: ‘voi re siete dei grandi traditori!  eravate nati come la speranza d’Israele. Noi sapevamo che eravate una speranza ambigua perché volevate imparentarvi con gli altri re, ma voi avete fatto di peggio. Siete la sciagura d’Israele e noi deponiamo ogni fiducia nella regalità dei re’. E’ in questo tempo che i profeti elaborano un’unica speranza: solo Dio può essere il re dei poveri, il re d’Israele. E allora gli oppressi non confidino nei re perché sono stati la loro dominazione e la loro sciagura, confidino invece in quel tempo in cui Dio deporrà dai troni i potenti e innalzerà gli umili ed Egli sarà il re. Quando Miriam, la mamma di Gesù, riprendendo l’antico cantico di Anna, dirà queste cose, vedrà realizzarsi la visione profetica: ‘finalmente ci sarà un tempo in cui non il regno dei Re, ma il regno di Dio sarà quello che ci farà vivere. Gesù è assolutamente dentro questa cultura profetica’. Gesù spera, vivendo in un tempo in cui l’ingiustizia è forsennatamente cresciuta e la dominazione romana è assolutamente schiacciante, che il regno di Dio giunga, come del resto credevano altri gruppi ebraici. Gesù, sbagliando, crede che il regno di Dio verrà subito. Lui, come il suo maestro Giovanni Battista e Paolo, sono vissuti nell’orizzonte della cosiddetta “imminenza dei tempi”. Oggi la teologia  e l’esegesi cattolica e protestante finalmente sono concordi nel dire quello che non osavano fino al 1940 e cioè che Gesù si era sbagliato rispetto ai tempi. Alcuni come Albert Schweitzer, grande studioso di Gesù, hanno perso la cattedra per questo. Oggi qualunque teologo dice che Gesù sul tempo ha preso un abbaglio, perché pensava che il regno di Dio fosse imminente, ma non ha sbagliato nulla nel dirci l’orizzonte del regno di Dio. Il regno di Dio come imminente è al centro del messaggio di Gesù. Ma Egli non era imprigionato dall’idea onnisciente di sapere tutto. Gesù dà due versioni del regno di Dio: ‘il regno di Dio verrà, ma il regno di Dio è già in mezzo a voi’. C’è un futuro del regno di Dio ma c’è anche un presente del regno di Dio. Ogni volta che una persona entra nel cammino della giustizia, della solidarietà, ogni volta che un cieco vede e che un lebbroso guarisce, ogni volta che un paralitico, cioè una persona chiusa nel suo mondo, riprende a camminare e a voler bene alla vita, alle persone, ecco il regno di Dio che viene. Il regno di Dio ha una dimensione che noi non vediamo, una dimensione di ‘ulteriorità’ che non appartiene all’immediatezza. Ma il regno di Dio non è nemmeno un eterno rimando, è qualcosa che ha una dimensione di felicità presente, di giustizia realizzabile. Vi raccomando molto alcuni libri: di Giuseppe Barbaglio “Gesù ebreo di Galilea” delle Dehoniane,  di Alberto Maggi “Il padre nostro” edito da Cittadella. “Gesù un ebreo marginale” è un’opera straordinariamente bella di J. Meier, un teologo cattolico peraltro conservatore, in tre volumi, l’ultimo di 1500 pagine, di cui 500 sul regno di Dio. E’ un piccolo gioiello, un libro di grande spessore. Ti rendi conto, leggendo queste pagine, di come Gesù fosse pieno della fiducia che Dio intervenisse: “venga il tu regno” era, in Gesù, in Paolo, nella comunità delle origini, un’invocazione escatologica, un’invocazione a far presto: ‘Dio, non perdere tempo, venga il tuo regno’. E’ una supplica ma anche un grido, tanto più che il regno di Dio, dopo tanta delusione dei Re, era ritenuto imminente e Gesù ne sottolineava anche la forte presenza. E’ molto importante, per ciascuno e ciascuna di noi, imparare a vedere i piccoli segni del regno di Dio nella vita. La vita non è solo lotta, tormento, delusione, affanno, per fortuna! Dobbiamo rimanere aperti  e guardare con altri occhi a ciò che succede nella nostra vita, nella storia del mondo, ai tanti segni della giustizia di Dio, i tanti segni che gli uomini e le donne, consapevoli e no, creano sui terreni della pace e della giustizia. Imparare a vedere che il regno di Dio è già una presenza è importante, ma è altrettanto importante mantenere viva l’attesa, perché quando uno non attende più, non lotta più, non spera più, non prega più. L’attesa, non come l’aspettare che passi il pullman, ma attendere in senso dinamico; quello che voleva dire la parola ‘avvento’, attendere in modo vivo qualcosa che deve venire. Quando studiavo io si diceva: “il regno di Dio è la chiesa cattolica”. Che bestemmia! Queste “bestemmie” però non vengono scomunicate. Noi tutti, popolo di Dio, che siamo chiesa, dobbiamo renderci conto che il regno di Dio è ancora un’altra cosa da noi, lo possiamo servire, ma non ne siamo i detentori. E’ un atteggiamento totalmente diverso.

Sia fatta la tua volontà. E’ presente in Matteo e nella Didachè, ma non c’è nel vangelo di Luca. “Sia fatta la tua volontà” è una preghiera che c’è sempre nelle scritture. Ricordate le parole di Gesù nel Getzemani o il ‘non chi dice Signore, Signore ma chi fa la volontà del padre mio’ e ‘chi fa la volontà di colui che mi ha mandato’ in Giovanni. Notate bene, la volontà di Dio, sia in cielo che in terra. Come non mettere prima sia “santificato il tuo nome”, la santità, e poi “venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”. Qualcuno dice che è lo stesso significato ampliato, sostanzialmente siamo nella stessa ottica: ‘il regno di Dio, il suo nome che diventi riconosciuto, la sua volontà che sia fatta’. Tre invocazioni costruite in crescendo che ribadiscono la stessa cosa. Luca non ha più messo ‘la sua volontà’ perché pensava che il nome e il regno fossero sufficienti.

Ed ecco la parola che non vi ho tradotto. Il testo greco (ton arton hmvn ton epiousion dos hmin shmeron) ‘il pane nostro (epiousion) dà a noi oggi’. Ma cosa vuol dire questo epiousion? Il vocabolo non si trova nei vari vocabolari greci. Prendi i tre grandi detti, c’è in tutti e tre (epiousion  parola greca) ‘sopra-sostanza’, ma cosa vorrà dire? Ci sono interpretazioni diverse: volevano definire un concetto così forte che hanno coniato una nuova parola greca, l’hanno fatta loro, non c’era! Quali sono nella storia della traduzione i significati? Innanzi tutto: “dacci il pane”,  il pane vuol dire il nutrimento per vivere materialmente, ma anche spiritualmente. Come non pensare alla manna nel cammino del deserto, a una metafora; come non pensare alla parola di Dio che nutre le nostre vite. Tutto viene messo insieme ed è il ‘pane nostro’. Ma notate: epiousion, la prima denominazione che viene usata, è il ‘pane futuro’, formato da epiousa, cioè ‘che sarà domani’. Il pane futuro potrebbe essere quello come dicevamo della manna: prima del sabato ne ricevevano due porzioni perché era utile anche per il sabato. Il pane per il futuro: ‘non ci manchi nel futuro il tuo pane, il tuo nutrimento, il pane per domani’. A dire la verità gli esegeti su questo hanno sollevato dei grandi problemi, perché contraddirebbe la raccomandazione che segue di poco il Padre nostro, nella quale si invitano i discepoli di Gesù ad abbandonare ogni preoccupazione riguardo al cibo, non solo per il futuro, ma anche per il presente: ‘Non preoccupatevi dunque dicendo…’.

Questa etimologicamente è una possibile interpretazione. Ce n’è un’altra possibile, greca, epi  ousia  “sopra la sostanza”, un pane così nutriente, “soprasostanziale”. Molti padri della chiesa, molti teologi dei primi secoli dicono che questo è il pane della parola di Dio. ‘Dacci per noi oggi il pane soprasostanziale, dacci il pane che ci fa vivere’. Ebbene, mentre l’altro pane è una sostanza bella, buona, nutriente, daccene uno ancora più nutriente. Ma c’è ancora un’altra interpretazione. Nella terza ipotesi l’aggettivo (epiousion) viene considerato formato da epi ousion e significherebbe: ‘quello che è necessario all’esistenza’, ‘dacci il pane sufficiente, necessario alla vita’. Ecco perché molti nel Padre nostro hanno tradotto “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Questa in realtà è una delle soluzioni più accettate oggi: ‘quello che basta per l’oggi’, in perfetta consonanza con la raccomandazione successiva, dello stesso vangelo, che dice: ‘non preoccupatevi’. “Dacci il pane che basta per oggi, quotidiano”, nel senso di  ‘necessario’. Etimologicamente tutte queste sono traduzioni corrette, non è che siano inventate. Può darsi che si possa pensare così: che epiousion è una parola che coinvolge un infinità di significati. Ed è bene che nelle chiese cristiane questo sia riconosciuto. L’allusione al pane, al nutrimento che Dio ci dà, alla sua parola, ma anche al necessario per vivere. Soprattutto un pane che non diventi il segno della nostra ingordigia, un pane che riceviamo per l’oggi. Il pane che non diventa quel dio che potrebbe essere l’accumulo al quale noi attacchiamo il cuore, quel pane che torniamo ad invocare ogni giorno, come nostro, per noi ma non solo per me. Certo che questa invocazione, nella dinamica della distribuzione dei beni di oggi, pone tanti problemi a ciascuno di noi. Un pane che è magari troppo abbondante per noi e che qualche volta non dividiamo abbastanza. Quando diciamo il Padre nostro davanti a Dio, io devo chiedermi se ho imparato quella pratica di divisione, di frazione, che sta nella preghiera che dico così frequentemente.

Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. Questo è il testo di Matteo, non mi soffermo, voglio solo dire che il testo parallelo invece di Luca parla espressamente di peccati. Perdonaci perché noi perdoniamo, Luca mette una correlazione più diretta. Luca instaura questo meccanismo, che del resto nei vangeli è frequente anche in Matteo. Vi ricordate la parabola del servo che è stato perdonato di un grosso debito, poi uscendo trova qualcuno che gli doveva quattro spiccioli, lui non lo perdona e il padrone gli dice: ‘io ti ho perdonato all’infinito, tu non hai perdonato nulla’? Il Padre nostro instaura sì la gratuità del perdono di Dio, ma anche il fatto che in qualche modo c’è un’interdipendenza tra il fatto che Dio ci perdona e che noi ci impegniamo a perdonarci. Matteo è pieno di questo concetto: ‘quando vai all’altare vai prima a riconciliarti’ . Voglio dirvi, spendendo una parola per il Primo Testamento, che il perdono non è affatto il requisito del Secondo Testamento. E’ solo l’ignoranza di noi cristiani che ci ha fatto dire questo: il perdono è un tema assolutamente importante nel Pentateuco e in tutti i libri della Bibbia. In modalità e in tempi diversi, ma il perdono è un tema ebraico rilevantissimo. Se questo viene già detto per la comunità delle origini, vuol dire che il bisogno di perdonarsi, anche nel gruppo dei discepoli del nazzareno e nell’esperienza delle comunità di Luca e di Matteo, doveva essere presente. Dobbiamo tenerne conto, tanto più che la Didachè dice: “e rimetti a noi il nostro debito (al singolare) come noi lo rimettiamo ai nostri debitori”. Qui si stabilisce un come, nella misura in cui noi perdoniamo, tu perdonaci; se noi perdoniamo poco, secondo la Didachè, siamo poco perdonati. Al di là del misurino, il problema è la reciprocità: io sono perdonato, ma sono sollecitato a perdonare. Di perdono c’è bisogno, siamo anche noi persone che hanno bisogno di essere perdonate e di imparare a perdonare.

Non farci entrare nella prova. Questa frase c’è in tutti e tre: Luca, Matteo, Didachè. Notate bene che la parola ‘prova’ è peirasmon,  una parola forte. Jeremias traduce in una maniera bellissima: “fa’ che non perdiamo la fiducia in te”, non farci entrare nella tentazione, nella disperazione, nella prova ultima di perdere la fiducia in te. “Non ci indurre in tentazione” è proprio la peggior traduzione che sia stata fatta. Come se Dio fosse lì a tentarci. Le tentazioni riguardavano specialmente il sesto comandamento, in una certa età della nostra vita, che forse è quello che nella vita ci tormenta di meno. Sono altri i problemi più gravi: la disponibilità, l’amare. Ho trovato sempre un’esagerazione su certi aspetti della vita come se fossero centrali. Ho trovato che in tutti i secoli cristiani c’è stata progressivamente un’esasperazione di alcuni temi e un abbandono degli altri: la solidarietà, la giustizia. Invece nella Bibbia la tentazione è un elemento molto diverso, riguarda la nostra fiducia, il nostro modo di metterci in relazione con Dio.

Ma liberaci dal male. E’ la settima richiesta, che non c’è in Luca, c’è invece in Matteo e nella Didachè. L’espressione greca (apo tou ponērou)  è anche qui aperta a due egualmente giuste traduzioni: ‘liberaci dal male o dal maligno’. I protestanti hanno ‘dal Maligno’. Ovviamente quest’ultima è una traduzione che potrebbe portarci alla superstizione. E’ la credenza nel diavolo che da tempo abbiamo abbandonato. Il diavolo è una figura per dire il male, non esiste nessun diavolo, sono immagini bibliche che non intendono dire la presenza di una persona ma l’insieme delle prove, delle tentazioni, l’aggressione del male. E’ comunque incredibile questo aspetto con cui finisce in grido il padre nostro: “liberaci dal male”, perché il male del mondo è tanto! Ma è bello soprattutto perché viene usata l’espressione ‘liberaci’ che, se voi pensate, ha origine nel greco rhu, uno dei verbi che traduce l’ebraico della liberazione dell’esodo. La Bibbia è una storia di liberazione e il compendio della vita cristiana che c’è nel Padre nostro finisce con l’esodo.

“Liberaci dal male”: il Padre nostro è un appello alla liberazione, più che una supplica è un grido.

Nella Didachè’, chiaramente una liturgia, il Padre nostro termina con: ‘perché tua è la potenza e la gloria nei secoli’. “Così pregherete tre volte al giorno” Didachè 8,2 . ‘Pregherete tre volte al giorno’ è la preghiera di alcuni gruppi cristiani delle origini che avevano l’impegno di pregare con tale frequenza. L’Islam lo fa cinque volte. Le nostre origini sono segnate da tante tradizioni diverse.

Vorrei finire con alcune piccole osservazioni: a me piace ricordare che noi siamo figli e figlie di Dio, riscoprire la ‘filialità’, l’intimità. E riscoprire nella comunità la nostra dimensione di persona, l’io e il noi, non separarli mai. Nell’esperienza  di Gesù c’è sempre l’appello al ‘vieni e seguimi’, ma c’è sempre anche l’appello a dividere il pane, a considerarci insieme. L’altra cosa che vi consiglio come preghiera: guardiamoci dal ripetere frettolosamente il Padre nostro. Non sarebbe meglio, questo è il mio metodo, dire: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome” e fermarsi dieci minuti  in silenzio, altre volte dire: ”sia fatta la tua volontà”, altre recitarlo tutto? Ma mi chiedo: qualche volta non è meglio fermarci? Il rischio è ripetere e ripetere, invece bisogna fermarsi. Bisogna contrastare questo elemento della ripetizione. Le parole hanno un senso; quando sono parole che impegnano la vita, noi le proferiamo con un certo tremore. La parola è densa di responsabilità, deve avere una correlazione con la vita. In questa società del non pensiero, dove è facile non pensare, qualche volta mi sembra opportuno soffermarci. Non è un modo per appesantire, è un modo per approfondire.

Se invece di riconoscere il cristianesimo in 5 o 6 dogmi , riconoscessimo che questo è il compendio della vita cristiana: guardare a Dio, riconoscere il suo amore, che venga la sua giustizia, la sua volontà nel mondo, che ci sia il pane per tutti, che noi pensiamo personalmente a dividerlo, che ci si perdoni e che si tenti di liberare il mondo dal male. Ma non e tutta qui la strada di Gesù? E come mai dalla narrazione e dalla prassi, siamo passati ad una dogmatica che non ha nessun interesse, che non ha nessun fondamento? Della chiesa occorre smantellare questa architettura umana, padronale ed arrivare a capire che l’essenza è questo guardare a Dio in una pratica di giustizia, di amore, di riconoscimento e di vita nel mondo. Mi sembra che il Padre nostro possa rappresentare per ciascuno e ciascuna di noi, per i vostri figli e le vostre figlie un’ispirazione, un sentiero della nostra vita e soprattutto un sentiero in cui la nostra vita incontra Dio, noi, il mondo. Tre cose da non separare mai. Bonhoeffer, prima di essere ucciso da Hitler, questo grande teologo, disse: “Oggi nella mia fede non riesco più a parlare del mondo senza Dio…e non riesco a guardare a Dio senza il mondo”. Mi è sembrato sempre il progetto di una vita cristiana in cui se pensiamo a Dio non fuggiamo dalla realtà del mondo, dalle responsabilità, e se pensiamo al mondo e ci immergiamo nelle lotte, nelle speranze, non perdiamo di vista Dio.