Il no all'immigrato e alla nostra storia
di Gian Antonio Stella
“Corriere della Sera” del 12 novembre 2008
Quando ci sarà un presidente nero in Italia? «Mai», ha risposto Umberto Bossi a Francesco
Rigatelli, collaboratore di Nova, del Sole 24 ore. E ha spiegato: «Finché c'è la Lega, il voto sarà
concesso solo agli italiani, che non sceglieranno un nero». E Roberto Castelli, dimentico di avere
contratto solo pochi anni fa un paganissimo «matrimonio celtico», è andato perfino più in là
ergendosi a
defensor fidei e dicendo che dava maggiori garanzie «il cristiano McCain» piuttosto che«Barack Hussein Obama, ricordiamoci il suo nome completo, che non ha mai chiarito le sue
convinzioni religiose».
Opinioni «disomogenee» rispetto al benvenuto rivolto ad Obama da mezzo governo. Così gelide
che perfino l'ambasciatore a Washington Giovanni Castellaneta, accorso premurosamente a buttar
acqua sul fuoco per la frase sul presidente «abbronzato», farebbe fatica a spacciarle per «carinerie ».
Tanto più che sono arrivate nel solco di altre sortite non proprio africaniste del leader leghista. Una
su tutte? «Nei prossimi dieci anni vogliono portare in Padania 13 o 15 milioni di immigrati, per
tenere nella colonia romano-congolese questa maledetta razza padana, razza pura, razza eletta».
Sia chiaro: può darsi che Barack Obama si riveli un presidente scarso, deludente o addirittura
pessimo. Può darsi. Ma il punto non è questo. Al di là della ostilità mille volte ribadita per ogni
forma di meticciato di civiltà, che al contrario appare una possibile ricchezza a tanti uomini di
chiesa, c'è nel rifiuto di ogni ipotesi di un Obama italiano il rifiuto di riflettere sulla storia.
Compresa la nostra. Era figlio di un immigrato straniero Leon Gambetta, che pur essendo di papà
savonese e innamorato della chiesa di S. Michele, «diamante incastonato in una foresta di ulivi», era
più francese di tutti i francesi e traboccava di patriottismo al punto che fu lui, dopo la sconfitta di
Sedan subita da Napoleone III, a riscattare l'onore transalpino. Ed era un immigrato Filippo Mazzei
che però si sentiva così americano da collaborare a stendere la dichiarazione di indipendenza, che
ebbe tra firmatari un altro italiano: William (Guglielmo) Paca. Ed era figlio di un immigrato (di
Imperia) Manuel Belgrano, il padre della bandiera argentina.
E figlio di immigrati era Arturo Alessandri, per due volte presidente del Cile. E ancora James
«Giacomo» Gobbo, il primo governatore cattolico e non anglosassone dello Stato australiano del
Victoria. E Franco Sartor, il sindaco di Sydney all'epoca delle Olimpiadi del Duemila. E ancora
Angelo Rossi, il sindaco di San Francisco che con i finanziamenti di un altro immigrato, Amadeo
Giannini, fondatore della Bank of Italy (poi Bank of America), fece costruire il Golden Gate. E
Fiorello La Guardia, forse il più amato dei sindaci newyorchesi. Potremmo andare avanti a lungo,
con gli esempi dei nostri emigrati che con la loro intelligenza, la loro voglia di lavorare, la loro
volontà di integrarsi, hanno arricchito i Paesi che li hanno accolti. E torniamo sempre alla stessa
domanda: la Francia sarebbe stata «più francese» senza Gambetta? L'Argentina sarebbe stata «più
argentina» senza Belgrano? L'America e l'Australia sarebbero state più pure e più belle e più
patriottiche senza i Rossi e i Gobbo, i Sartor e i La Guardia? Ma dai