La Lega e Carlo Marx
di Nadia Urbinati
La Repubblica del 24 aprile 2008
Nadia Urbinati insegna scienze politiche alla Columbia University di New York. Tra i suoi libri "Ai confini della democrazia" (Donzelli) e "L'ethos della democrazia" (Laterza)
Le
analisi via via più puntuali dei risultati elettorali dimostrano che
operai e casalinghe hanno votato per il partito più radicale e
populista della coalizione di centrodestra, premiando un messaggio a
un tempo liberista e razzista.
Questi
dati hanno provocato una giustificata cascata di commenti e interpretazioni. Autorevoli
opinion maker e uomini pubblici si sono improvvisati filosofi della storia
per dare un tono di fatale verità alle loro dichiarazioni: il mercato ha
sconfessato Karl Marx dimostrando che imprenditori e operai hanno gli
stessi interessi perché hanno gli stessi avversari; gli avversari sono lo
stato che tassa e mette regole ma che nel contempo non riesce a controllare le
frontiere.
E
nemmeno a tener fuori prodotti e manovalanza a basso costo; e infine e soprattutto
lo stato sociale che con le sue politiche dei servizi sociali è reso
colpevole di debilitare la solidarietà locale e le reti comunitarie
di sostegno ai bisognosi. Il messaggio che viene dalla cascata di voti
rastrellati dalla Lega Nord anche in regioni di consolidata tradizione socialdemocratica
come l’Emilia-Romagna, sarebbe dunque questo: il mercato deve riportare
lo stato alla sua vocazione originaria, quella che aveva prima della
formazione dello stato-nazione e della conversione bismarkiana dei governi
europei; deve tornare ad essere un sistema coercitivo che si occupa
esclusivamente di difendere diritti civili di base e che investe le
proprie risorse nella sicurezza dei cittadini e nella difesa delle
frontiere. Lo stato non deve più occuparsi di giustizia sociale e di
ridistribuzione della ricchezza tra i "figli uguali della
nazione", come èstato costretto a fare negli anni della
ricostruzione del dopo guerra. Non deve più essere ostaggio delle
illusioni socialdemocratiche per la ragione assai semplice che non
c’è alcun problema di ingiustizia sociale a cui rimediare, ma solo
la sfortuna e la disgrazia del bisogno: piaghe fatali che l’umanità ha
ereditato dalla caduta di Adamo ed Eva e che la carità del buon
samaritano può curare molto più umanamente di uno stato dispensatore
di servizi di cittadinanza. Questa è la lezione filosofica che ci
viene dalle recenti elezioni.
Comunitarismo
e liberismo sono naturalmente alleati, soprattutto quando, come
in questo scorcio di modernità, le coordinate tradizionali della
politica (gli stati nazione) non sono in grado di far fronte ai rischi
e alle sfide della mondializzazione. Ma contrariamente ai vaticini dei filosofi
d’occasione, Marx aveva visto giusto. Il suo Manifesto è l’earth
link del nostro tempo, una lente che zumma dal pianeta alle sue
periferie e viceversa, dandoci immagini nitide di come siamo. Ci fa
vedere come l’integrazione globale dei mercati stia insieme a un
ricompattamento comunitario locale; come l’espansione a macchia d’olio
delle metropoli si affianchi a periferie selettive e chiuse (i
sobborghi americani creati ex novo e protetti come cittadelle medievali,
con cancelli, guardiani e visti d’ingresso); come la diffusione
planetaria di una cultura di massa e di una lingua (quella inglese) si
integri alla rinascita di linguaggi e culture locali, spesso
permeabili solo a chi li pratica quotidianamente (come molti cartelli stradali
nei villaggi e nelle campagne del Nord-Est). In questa schizofrenia le
solidarietà trasversali, per intenderci quella cultura etica
universalista sulla quale la "classe operaia" aveva definito
la propria identità e lo stato sociale le proprie politiche di
giustizia, appaiono inattuali, inefficaci, e perfino tirannici. La
libertà contro lo stato sociale (non contro lo stato gendarme) è la
sola forte libertà che le destre liberiste-comunitarie esaltano e
vogliono proteggere.
Se
le questioni sociali sono questioni di povertà e carità volontaria
non più di giustizia sociale, la classe operaia non ha più senso di
esistere. Essa non è altro che una fascia di basso reddito misurata
dalle statistiche, l’insieme delle famiglie povere o a rischio di
povertà, gente (non classe) che arranca a fine mese su bollette e
debiti, che si ciba a costo quasi zero della cultura pop-global televisiva,
che si sente pericolosamente tallonata dall’immigrato low-cost e si
fa razzista. Si fa alleata di quegli imprenditori che vogliono le
frontiere chiuse ai beni cinesi e indiani. Una prova di questa
trasformazione ci viene ancora una volta dagli Stati Uniti, che perla loro
enorme geografia sono stati a buon diritto un laboratorio del
globale-locale fin dai primi del Novecento; qui la classe operaia non
è mai riuscita a costruire una solidarietà universale-nazionale
proprio perché l’immigrazione permanente ha reso impossibile
conquistare e difendere regole e diritti sociali a protezione dei
lavoratori. Il mercato del lavoro come uno stato di natura dove il
vicino è un potenziale nemico, non un alleato di classe.
Dunque,
una storia globale, non italiana. Una storia globale che mostra però
i propri effetti laddove le persone vivono: nelle città e nei paesi,
non nel generico globo. La politica dei "muri" che la caduta
del muro di Berlino ha generato esemplifica molto bene questa storia. Muri
sono in costruzioni in molti luoghi del mondo: per dividere stati e
popoli, ma anche quartieri di una stessa città come a Padova, dove
gli italiani hanno in questo modo cercato di "proteggere e
separare" se stessi dai vicini residenti di origine extra-Europea.
Se il muro di Berlino doveva bloccare il diritto di uscita ai sudditi
della Germania comunista, questi nuovi muri protezionistici dovrebbero ostruire
l’entrata ai migranti o rendere la loro vicinanza invisibile o meno
visibile.
I muri anti-immigrazione, come quello spettacolare che la California ha costruito sui confini con il Messico, sono un modo molto concreto per dire che coloro che li innalzano pensano che potranno preservare i loro piccoli e grandi privilegi se e fino a quando solo loro ne godranno. Mettono in evidenza una delle più stridenti contraddizioni che affliggono le nostre affluenti società democratiche: quella tra una cultura raffinata che condivide valori universalistici e cosmopolitici e che resta comunque una minoranza (spesso snob), e una diffusa cultura popolare che mentre si appaga del consumismo globale è atterrita dalla globalizzazione, teme fortemente l’incertezza economica e sviluppa un attaccamento parossistico ad un benessere che appare sempre più risicato, fragile e temporaneo. Come si legge nel troppo poco letto Manifesto di Marx, alla crescita inarrestabile di un’uniformità globale si affianca la crescita di un’evidente resistenza del locale: nascono nuovi nazionalismi, il razzismo, la nostalgia per comunità pre-moderne come il borgo e le chiese. E a questi parossismi una parte dell’impresa capitalistica (quella piccola e media) ha un naturale interesse ad allearsi perché il mercato globale è una bestia selvaggia contro la quale trova altro rimedio se non il vecchio stato poliziotto. La classe operaia è un anacronismo, dunque, ma non perché non c’è più diseguaglianza di potere e c’è comunanza di interessi, ma perché questa diseguaglianza è stata tradotta in termini morali e apocalittici: una questione di sfortuna, di migrazioni bibliche, di scenari finanziari in permanente rischio di crollo. In questo panorama, il linguaggio della politica e del riformismo appare inefficace e fuori posto mentre quello populista avvince e unisce. Eppure, gli esseri umani non dispongono che di ragione pubblica e linguaggio politico per governare le loro società in modi civili e senza rinunciare a limitare le ragioni di sofferenza e dare a tutti la possibilità di vivere con umana decenza e dignità