LAICITÀ E GIOCHI DI POTERE
Gianni Vattimo
La Stampa 21-12-2007
Ma che cos’è davvero in gioco nei dibattiti
sulla laicità che periodicamente si ripetono e che, come ha osservato Barbara
Spinelli nella sua inchiesta, sono un tratto specifico della società italiana?
Se, come pare, essi sono un estremo seguito della scomparsa delle Dc - ma forse
è solo in sonno - è difficile non vedere che la religiosità e la fede in
questi dibattiti c’entrano poco, e che si tratta molto più verosimilmente di
questioni di potere. Davvero gli italiani si scandalizzerebbero se il Presidente
della Repubblica o il presidente del Consiglio nominassero Dio in discorsi
ufficiali, come accade (troppo) spesso negli Stati Uniti? Ci sarebbero forse
mugugni da parte di qualche ateo accanito, ma davvero non si riesce a credere
che qualcuno sentirebbe minacciato lo stato democratico. La minaccia, potrebbe
dire un cittadino mediamente rispettoso, credente, mezzo credente, agnostico,
consisterebbe piuttosto nel timore che questa riaffermata presenza di Dio nella
sfera pubblica finisse per dar luogo a nuove esenzioni dall’ICI per i tanti
enti ecclesiastici che già ne godono ampiamente e reagiscono duramente,
invocando la verità del Vangelo, contro chiunque li metta in discussione.
Non credo che il tanto vituperato laicismo (ottocentesco, si aggiunge a
ulteriore spregio) sia espressione di un’inimicizia verso le credenze
religiose o peggio verso Gesù e il Cristianesimo. Se possiamo permetterci un
paragone, sulla questione si opera uno scambio analogo a quello che avviene
quando un esponente della comunità ebraica taccia di antisemitismo chiunque
(come Chomsky e altri grandi intellettuali ebrei) critichi la politica
d’Israele. E dire che in Italia la Chiesa non è stata mai vittima di una
Shoah, anzi: la sua ipersensibilità a ogni rivendicazione di laicità dello
Stato è forse una conseguenza del privilegio di cui ha sempre goduto nel Paese.
Ciò non vuol dire che con la questione della laicità la fede non c’entri
nulla. C’entra anzitutto perché la Chiesa, con le sue gerarchie, usa troppo
spesso il richiamo alla verità religiosa per difendere i propri privilegi, per
lo più riconosciuti dal Concordato, cioè dalla Costituzione. E che nessuno osa
mettere in discussione seriamente. Viviamo in un paese dove, sebbene la fede
religiosa non sia più fervida che in paesi simili, il governo ha rischiato di
cadere per un emendamento che voleva sanzionare anche da noi le espressioni di
discriminazione omofobica. Un emendamento non da poco, perché potrebbe essere
impugnato contro le tante affermazioni vescovili e papali che chiamano
l’omosessualità peccato contro natura, minaccia grave contro la famiglia e
dunque pericolo per la società.
I cattolici parlamentari in buona fede che vogliono la soppressione
dell’emendamento, come di tante altre libertà laiche, ritengono che se si
cedesse su questi «valori non negoziabili» verrebbe a mancare qualunque punto
di riferimento morale. Dicono che fuori dai valori cattolici (tanti cristiani,
fortunatamente, non li condividono) non ci sia nessuna visione del mondo degna
d’esser chiamata umana. Di nuovo, siamo di fronte a tesi che potrebbero essere
trascinate in tribunale in base all’emendamento contro la discriminazione. La
pretesa del Papa d’annunciare la vera morale naturale, e la richiesta agli
stati di conformarvisi, non significa altro che un radicale disprezzo d’ogni
altra cultura che non sia la cattolico-romana. Un disprezzo minaccioso: se la
Chiesa riuscisse a imporre a una maggioranza parlamentare il comportamento della
sen. Binetti, ogni inosservanza delle leggi bioetiche «naturali» (niente
aborto, niente suicidio assistito, niente unioni civili; obbligo di frequenza
alla messa domenicale, forse) non potrebbe godere del diritto che ogni
democrazia riconosce alle minoranze; equivarrebbe infatti a pura e semplice
mostruosità «disumana», a cui si potrebbe sfuggire solo con la conversione
che in altre epoche la Chiesa imponeva, per il loro bene, agli eretici e ai «selvaggi».