LAICITÀ, VALORE NON NEGOZIABILE
Gian Enrico Rusconi
La Stampa - 3-4-2008
Chiesa ed etica pubblica: perché in Italia si accetta un’ingerenza che nel resto d’Europa è inopportuna
L’esibizione televisiva della cerimonia del
battesimo del giornalista del Corriere della sera Magdi Allam è stato
l’ultima prova della inconsistenza del lamento degli uomini di Chiesa che la
religione sia esclusa dallo spazio pubblico e mediatico. Settimane or sono le
dichiarazioni della Conferenza episcopale italiana, che contenevano una critica
esplicita al sistema elettorale vigente, hanno incassato il consenso generale
(pur con qualche malumore) sulla legittimità della gerarchia ecclesiastica di
esprimersi senza restrizioni anche su temi politici. I due episodi hanno
confermato che ciò che in qualunque paese europeo è ritenuto inopportuno,
viene accettato come ovvio in Italia.
A questo punto, è giusto chiederci quali conseguenze derivino per la laicità
dello Stato italiano. Non a livello formale, di principio, ma nella concretezza
della vita pubblica. La domanda è tanto più interessante in un momento in cui
il dibattito pubblico su questo tema è sospeso per tacita intesa nel segno
della tregua elettorale. Ma il problema è solo rimosso.
I rapporti tra Chiesa e Stato in Italia sono sempre stati considerati una
peculiarità (se non una anomalia) imposta dalla singolare storia nazionale.
Oggi si preferisce mimetizzarli in vesti nuove come espressione dell’«età
post-secolare» che caratterizza l’intero Occidente.
Ma ha senso parlare di società post-secolare in Italia che secolarizzata o
secolare (che nel linguaggio internazionale equivale al nostro «laico» ) non
è mai stata davvero?
L’enfasi sull’identità cristiana degli italiani che compensa la caduta
della loro pratica religiosa, la deferenza verso il magistero della Chiesa che
si accompagna ad un generalizzato analfabetismo religioso, l’appello alla
dottrina morale della Chiesa a copertura della sistematica trasgressione privata
della morale sessuale e familiare zelantemente sostenuta in pubblico - tutti
questi non sono indicatori di una nuova età post-secolare. Sono semplicemente
segni dell’impoverimento dell’etica pubblica.
Qui si annidano gli equivoci della strategia della Chiesa che si offre come
fornitrice di una autentica «etica pubblica» (o ethos comune) e presenta
pubblicamente la sua come «la religione della famiglia», senza rendersi conto
della incongruenza in cui cade. Gli uomini di Chiesa infatti da un lato hanno
difficoltà a comunicare i fondamenti dogmatico-teologici della dottrina a
credenti rimasti in grande maggioranza teologicamente minorenni. Dall’altro
lato rivendicano per sé un ruolo civil-pedagogico su temi antropologici
(famiglia, rapporti sessuali interpersonali ecc.) pretendendo di affrontarli con
criteri puramente umano-razionali. Ma poi nel dibattito pubblico introducono
come argomento discriminante «la non negoziabilità dei valori» che si
giustifica soltanto con una (particolare) visione religiosa.
L’espressione «non negoziabilità dei valori», diventata ormai luogo comune,
è estremamente ambigua. Nessuno contesta al cattolico o al credente di ogni
fede la piena legittimità di comportarsi come tale pubblicamente e quindi di
avanzare ragioni che danno rilevanza politica alle sue esigenze identitarie. Ma
quando queste esigenze/pretese assumono pubblicamente la forma enfatica della «intrattabilità»
nascono serie difficoltà per la democrazia. Infatti allora non si tratta più
dell’utilizzo ottimale dello spazio pubblico e dell’accesso al discorso
politico che mira alla deliberazione politica, bensì del boicottaggio del
processo deliberativo.
Detto in altro modo: c’è il pericolo che le pretese/esigenze di
riconoscimento identitario di un gruppo (fosse pure numericamente maggioritario)
intacchino il principio della cittadinanza costituzionale, cedendo a tentazioni
comunitariste cioè a forme di pressione o di ricatto politico in nome di
esigenze di una particolare identità-di-comunità, (nel caso specifico
l’identità di appartenenza all’istituzione-Chiesa).
Questa strategia mette pericolosamente sotto pressione la funzionalità della
vita democratica. Quando i vescovi criticano la legge elettorale, lo fanno
esplicitamente nel contesto del discorso sulla «intrattabilità dei valori»
che essi intendono difendere. Sollevano così il sospetto che a loro non sta a
cuore la vitalità della democrazia come tale, ma la riuscita elettorale di
rappresentanti politici che sostengano senza alcuna esitazione la loro
posizione.
Di fronte a questa situazione è bene ribadire che in democrazia «non
negoziabili» sono soltanto i diritti fondamentali, tra i quali al primo posto
c’è la pluralità dei convincimenti, pubblicamente argomentati. Al pluralismo
dei convincimenti deve essere subordinato l’impulso di far valere i propri
valori (per quanto soggettivamente legittimi) nei confronti degli altri
cittadini.
Spesso si sente dire: perché dividerci aspramente su questioni (unioni di
fatto, unioni omosessuali, fecondazione assistita) che interessano modeste
minoranze di popolazione, mentre ci sono problemi assai più urgenti di
rilevanza generale? La domanda sembra sensata ma nasconde a stento
l’insofferenza verso minoranze considerate «devianti» o «disturbanti»,
contro le quali si fa valere un ethos comune, dettato di fatto da particolari
motivi religiosi che diventano discriminatori.
Siamo così riportati al cuore della questione democratica che è tutt’uno con
la questione laica. Nella vita pubblica democratica la discriminante
fondamentale tra i cittadini non è tra chi crede e chi non crede (o è
diversamente credente), ma tra chi riconosce e garantisce la pluralità delle
visioni e degli stili morali di vita (come del resto recita in un linguaggio
diverso l’art. 3 della Costituzione) e viceversa chi, dichiarando «intrattabili»
i propri valori, mette in scena pubblicamente la propria pretesa di verità, si
sente investito della missione di orientare in modo autoritativo l’ethos
pubblico senza assumersi la responsabilità delle conseguenze che derivano alla
qualità e funzionalità del sistema democratico.
Il primo atteggiamento (quello affermativo della «libertà al plurale») è
laico, il secondo non lo è. Laica è la disponibilità a far funzionare in modo
solidale le regole della convivenza partendo dal presupposto che la molteplicità
delle «visioni della vita», delle «concezioni del bene» o della «natura
umana» non è una disgrazia pubblica (il famigerato «relativismo») cui non ci
si deve rassegnare, ma l’essenza stessa della vita democratica.
Di fronte a questa problematica i laici italiani hanno due compiti. Il primo è
quello di sottolineare che la laicità non è semplicemente un’opzione privata
( un insieme di credenze omologo ad altri, magari una fede) ma è innanzitutto
un criterio e un valore pubblico, che si costruisce sulle virtù personali del
civismo e della disponibilità all’attenzione per tutti. Il secondo compito
del laico è quello di ricostruire un discorso propositivo sui grandi temi della
natura umana, della razionalità e della scienza. È una prospettiva impegnativa
per contraddire la tesi che la laicità si ridurrebbe ad una costruzione di
regole formali, senza contenuti vincolanti, che andrebbero cercati altrove,
nella religione-di-chiesa, depositaria privilegiata di valori e contenuti di
senso. È stupefacente che questa tesi sia condivisa - anche sulla grande stampa
e nel sistema mediatico - da chi sino ad ieri si dichiarava laico. È il segno
della necessità di inaugurare una nuova stagione della laicità.