Il linguaggio dei vincitori
di Stefano Rodotà
La Repubblica del 28 aprile 2008
Sono
francamente ammirato dall'impassibilità con la quale tanti commentatori
analizzano i flussi elettorali, esaltano la radicale semplificazione del sistema
parlamentare, assumono la Lega come riferimento, si chiedono se siamo entrati
nella Terza Repubblica o se la Seconda Repubblica comincia solo ora. Ma tanti
dati di cronaca, e le sollecitazioni della memoria, mi fanno poi sorgere qualche
dubbio e mi spingono a chiedere se la vera novità di queste elezioni non
consista nell'emersione piena di un modello culturale, sulle cui caratteristiche
hanno in questi giorni scritto assai bene su questo giornale Nadia Urbinati e
Giuseppe D'Avanzo.
Non giriamo la testa dall'altra parte. Quel che è appena accaduto, e si sta
consolidando, riguarda davvero "l'autobiografia della nazione". Non
riesco a sottovalutare fatti che troppi si sforzano di considerare minori, che
vengono confinati nel folklore, assolti da Berlusconi come simpatiche e innocue
forzature del linguaggio da parte degli uomini della Lega. E invece dovremmo
sapere (quanto è stato scritto su questo argomento?) che proprio il linguaggio
è la prima e rivelatrice spia di mutamenti profondi che investono la società e
la politica. L'elenco è lungo, e non riguarda solo la storia recentissima.
Si cominciò da pulpiti altissimi con l'aggressività verbale eretta a
comunicazione politica quotidiana, considerata troppe volte come una simpatica
bizzarria e dilagata poi in ogni possibile contenitore televisivo, sdoganando
ogni becerume anche nei luoghi propriamente istituzionali. E il linguaggio non
è solo quello verbale. Si sono fatte le corna nei vertici internazionali e si
è mangiata mortadella in Senato, si continuano a disertare le manifestazioni
del 25 aprile e si elegge il Bagaglino a rappresentante della cultura nazionale.
Commentando il colpo di mano del Presidente della Commissione europea che ha
tolto all'Italia le competenze in materia di libertà, sicurezza e giustizia, si
è detto che è meglio così, che è preferibile occuparsi di trasporti
piuttosto che di "omosessualità". Per fortuna non si è parlato di
"culattoni", riprendendo il simpatico linguaggio della Lega: ma, di
nuovo, il linguaggio è rivelatore, anche perché rende palese una cultura
incapace di comprendere la dimensione dei diritti civili. Sempre scorrendo le
cronache, scopriamo che il futuro Presidente della Camera dei deputati
apostrofa, sempre simpaticamente, un immigrato come "paraculo" mentre
si investe, non si sa a quale titolo, della funzione di controllo dei documenti.
Di un futuro ministro leghista ci viene offerto un florilegio di citazioni su
stranieri e immigrati, sulle sanzioni da applicare, che non ha nulla da
invidiare ai suoi più noti ed estroversi colleghi di partito. Un bel ponte tra
passato e futuro, una indicazione eloquente degli spiriti che nutrono la nuova
maggioranza, all'interno della quale si fa sentire sempre più forte la voce di
chi invoca la pena di morte, raccogliendo un consenso che rischia di vanificare
il grande successo internazionale del nostro Paese come promotore della
moratoria contro la pena di morte approvata dall'Onu.
Di fronte a tutto questo dobbiamo davvero ripetere che le parole sono pietre.
Suscitano umori, li fanno sedimentare, li trasformano in consenso, ne fanno la
componente profonda di un modello culturale inevitabilmente destinato ad
influenzare le dinamiche politiche.
Parliamo chiaro. Una ventata razzista e forcaiola sta attraversando l'Italia, e
rischia di consolidarsi. Ammettiamo pure che grandi siano le responsabilità
della sinistra, nelle sue varie declinazioni, per non aver colto il bisogno di
rassicurazione di persone e ceti, spaventati dalla criminalità "predatoria"
e ancor più dall'insicurezza economica, vittime facili dei costruttori della
"fabbrica della paura". Ma questa ammissione può forse diventare una
assoluzione, un modo rassegnato di guardare alle cose senza riconoscerle per
quello che davvero sono?
La reazione può essere quella di chi alza le mani, si arrende culturalmente e
politicamente e si consegna al modello messo a punto dagli altri, con un
esercizio che vuol essere realista e, invece, è suicida? Doppiamente suicida,
anzi. Perché non si compete efficacemente quando si parte dalla premessa che la
ragione di fondo sta dall'altra parte: l'imitazione servile, in politica, non
rende. E, soprattutto, perché si consoliderebbe proprio il modello che, in nome
della civiltà, dev'essere rifiutato e combattuto. Le possibilità di ripresa
delle forze di centrosinistra passa proprio dalla piena consapevolezza della
necessità di una immediata messa a punto di una strategia diversa.
Aggiungo che vi è un elemento meno appariscente di quel modello che ha lavorato
nel profondo, che può apparire meno insidioso e che, quindi, può non suscitare
la reazione necessaria. Mi riferisco ad una idea di comunità chiusa, che
coltiva distanza e ostilità; che spinge a chiudersi nei ghetti; che fomenta il
conflitto tra i gruppi sociali contigui. Anche questa è una lunga storia, perché
molte ed esemplari sono le "guerre tra poveri".
Che non sono scongiurate elevando muri e neppure predicando una tolleranza che
in questi anni si è trasformata in accettazione dell'altro alla sola condizione
che faccia ciò che ci serve e che i nostri concittadini rifiutano, alle
condizioni che imponiamo: e poi, esaurita questa funzione e calata la sera,
quelle persone si allontanino sempre di più, isolandosi nelle loro comunità,
lontani dagli occhi e, soprattutto, liberandoci da ogni inquietudine umana e
sociale.
Dobbiamo affrancarci dalle suggestioni del comunitarismo, che presero Tony Blair,
solleticarono anche qualche politico della nostra sinistra e, ora, rischiano di
tornare alla ribalta per chi si fa abbagliare dall'esempio leghista.
Di tutto questo non basta parlare. È questa diversa cultura, che ha tanto
giocato anche nell'esito elettorale, a dover essere analizzata. Altrimenti, le
considerazioni sui comportamenti elettorali rimarranno monche e le stesse
proiezioni nella dimensione istituzionali saranno distorte. Non è solo un
doveroso esercizio di pulizia intellettuale. Se si pensa che vi sono emergenze
che devono essere fronteggiate con forte spirito politico, e il degrado
culturale lo è al massimo grado, bisogna essere chiari e necessariamente
polemici.
Guai a dare una interpretazione del "dialogo" tra maggioranza e
opposizione che induca a mettere tra parentesi le questioni più scottanti.
Bisogna rendersi conto che ammiccamenti e tatticismi qui non servono a nulla, e
dire alla maggioranza che in questa materia, davvero, non si può negoziare.
Solo così può nascere una alleanza non strumentale tra politica e cultura, che
investa anche schieramenti diversi; e, forse, qualche apertura per uscire da un
clima che si è fatto irrespirabile.
Un piccolo, finale esercizio di relativismo culturale. Le cronache ci hanno
parlato di un Tony Blair sorpreso senza biglietto sul treno tra l'aeroporto e
Londra. Anche i nostri giornali hanno biasimato il fatto, riprendendo le giuste
reazioni inglesi. Ma, da noi, doveva essere in primo luogo sottolineato come un
potente ex primo ministro di una grande nazione non si servisse di auto di
Stato. Questi sono i modelli culturali che ci piacciono