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SERGIO LUZZATTO AGGIORNA LA STORIA DI PADRE PIO. IL DITO NELLA PIAGA DEL “SANTO IMPOSTORE”

 ADISTA n° 86 del 8.12.2007

 

DOC-1935. TORINO-ADISTA. “Altro Cristo” per i suoi devoti, “santo impostore” per i suoi detrattori: la figura di padre Pio da Pietrelcina è sempre rimbalzato fra questi due estremi ed è sempre sfuggita ad un rigoroso esame storico che, libero da intenti agiografici o polemici, ne documentasse la vicenda alla luce della storia politica, sociale ed ecclesiale del Novecento. Lo fa, per la prima volta, Sergio Luzzatto, docente di Storia moderna all’Università di Torino, in un libro (Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Einaudi, Torino, 2007, pp. 420, euro 24) che ha il merito di collocare il frate di Pietrelcina all’interno delle vicende storico-politiche del secolo scorso in cui, a dispetto di chi lo vorrebbe confinato in un anonimo convento dell’Italia meridionale, p. Pio è profondamente immerso: dalla prima guerra mondiale agli ambigui rapporti con il fascismo, dai primi anni dell’Italia repubblicana alla stagione del boom economico durante la quale – complici i nuovi mass media e il miglioramento delle vie di comunicazione – il culto di p. Pio assume respiro internazionale.

 

La Chiesa di padre Pio: “corpo mistico”, non “popolo di Dio”

E poi il suo ruolo nella storia religiosa del Novecento, che si può osservare anche attraverso la lente dei pontefici che lo hanno incrociato: “Benedetto XV – scrive Luzzatto – si mostrò scettico verso la figura del santo allo stato nascente, permettendo che il Sant’Uffizio procedesse subito contro di lui. Pio XI fu più diffidente ancora: sotto il suo pontificato, la severità del Vaticano nei confronti di padre Pio arrivò quasi al punto di azzerarne le facoltà sacerdotali. Pio XII, al contrario, consentì il dispiegarsi pieno e indisturbato del culto garganico. Giovanni XXIII fece macchina indietro, autorizzando pesanti misure di contenimento della devozione”, al contrario di Paolo VI che invece mostrò grande “benevolenza” nei suoi confronti bloccandone però la beatificazione. Con Giovanni Paolo II, poi, arrivò il trionfo della canonizzazione che segnò una sorta di “rivincita canonica di padre Pio” ma anche il ritorno ad una ecclesiologia del passato: “Dichiarando apertis verbis che padre Pio era stato pane della Cena e calco del Crocifisso – scrive Luzzatto –, Giovanni Paolo II volle affermare la sua concezione della Chiesa quale incarnazione. Una Chiesa non tanto popolo di Dio, come nella proposta conciliare di Giovanni XXIII, quanto corpo mistico di Cristo, come nell’omonima enciclica di Pio XII”. 

“Il libro non aspira a stabilire una volta per tutte se quelle di padre Pio siano state vere stigmate, o se padre Pio abbia compiuto veri miracoli. Perché non è questo il terreno sul quale deve misurarsi uno studioso di storia”, spiega lo stesso Luzzatto in un’intervista al “Corriere della Sera” (30/10). “In sede storica , quello che importa è ricostruire le circostanze attraverso le quali uno dei numerosi taumaturghi che il Mezzogiorno d’Italia ha prodotto nei secoli, un frate rude e buontempone, diretto e levantino, ordinario e carismatico, è potuto diventare padre Pio. Cioè un fenomeno di immensa portata spirituale e temporale. L’oggetto di una devozione ormai senza eguali nella pratica della fede cattolica, e il soggetto di un business economico senza più limiti né frontiere. Importa capire che cosa abbia reso possibile tutto questo, da un’epoca all’altra della nostra storia novecentesca: dal trauma collettivo della Grande guerra all’abbraccio clerico-fascista tra Chiesa e regime, dall’andata al popolo della Democrazia Cristiana fino all’odierno new age del miracolismo.”

 

Stigmate chimiche?

Tuttavia il libro di Luzzatto svela anche particolari inediti, frutto di un paziente lavoro di ricerca  (fra l’altro l’autore è stato il primo storico autorizzato dal Vaticano a consultare il fascicolo inquisitoriale su p. Pio), che gettano nuova luce sulla vicenda del frate. Fra i tanti, ne segnaliamo due che hanno a che fare con due nodi fondamentali della vita di p. Pio: le stigmate e il grande ospedale che tutt’oggi sorge a San Giovanni Rotondo.

Già bollate come frutto di “isterismo” da p. Agostino Gemelli – che aveva suggerito al Sant’Uffizio di far ‘sigillare’ le piaghe del frate e di proibirgli l’uso di farmaci impropri che potessero impedirne la cicatrizzazione –, le stigmate di p. Pio assumono contorni ancora più misteriosi alla luce di alcuni documenti contenuti nel suo fascicolo inquisitoriale e riesumati da Luzzatto: le richieste del frate, tramite biglietti autografi che una sua devota, Maria De Vito, avrebbe dovuto consegnare ad un cugino farmacista, sia di flaconi di acido fenico (che causa delle bruciature alla pelle) sia, soprattutto, di veratrina, una sostanza fortemente caustica. Cioè di farmaci che, applicati su mani e piedi, avrebbero potuto lacerare i tessuti.

Un ospedale made in Usa

Si sarebbe dovuto chiamare “Fiorello La Guardia” – originario del foggiano, sindaco di New York fra il 1933 e il 1945 e direttore generale dell’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) – il grande ospedale di San Giovanni Rotondo annesso al convento di p. Pio. Almeno così in base alla richiesta di finanziamenti che il frate e i suoi devoti – ben introdotti nelle ‘stanze dei bottoni’ – fecero pervenire all’amministrazione statunitense nell’ambito del pacchetto di aiuti postbellici destinati all’Italia. Evidentemente una trovata per accattivarsi le simpatie dell’amministrazione che, in effetti, finanziò l’opera quasi per intero, come poté annunciare Alcide De Gasperi in un comunicato emesso alla vigilia delle elezioni del 18 aprile 1948: “Il governo italiano in questi giorni ha approvato lo stanziamento di 250 milioni di lire dal Fondo Lire Unrra per la costruzione di un grande ospedale a San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia”, che “sarà dedicato alla memoria” di Fiorello La Guardia. Un finanziamento che coprì gran parte delle spese e che assorbì un quarto dell’interno stanziamento, un miliardo di lire, destinato per tutti gli altri ospedali d’Italia messi insieme. Fu lo stesso p. Pio, scrive Luzzatto, a benedire l’inizio dei lavori dell’ospedale “Fiorello La Guardia”, “il cui nome e cognome sarebbero fuggevolmente apparsi – l’anno dopo – sulla facciata dell’edificio in costruzione, salvo poi sparire durante il seguito dei lavori per far posto alla scritta che a tutt’oggi l’incorona, Casa Sollievo della Sofferenza”.

Pubblichiamo di seguito alcune pagine di uno dei capitoli conclusivi del volume, che analizza i rapporti fra p. Pio e Giovanni XXIII e li arricchisce di particolari inediti. (luca kocci)

 

“UN IDOLO DI STOPPA”: IL GIUDIZIO DI GIOVANNI XXIII


Sergio Luzzatto

2. Le ghiottonerie e le filmine

(...) Alla svolta degli anni cinquanta, il brulichio di anime cristiane intorno al confessionale di padre Pio aveva spinto i cappuccini di San Giovanni Rotondo a istituire un sistema di prenotazioni: senza biglietto numerato, inutile sperare di inginocchiarsi davanti al frate con le stigmate. Un'ulteriore misura d'ordine era venuta dall'assegnazione di fasce orarie secondo il sesso dei penitenti: le donne al mattino e nel primo pomeriggio, gli uomini verso sera. Ma simili contromisure non erano bastate a risolvere i problemi derivanti dal numero enorme di iscritti alla confessione. Anche perché il sistema delle prenotazioni veniva gestito da pie donne che si trovavano da anni nell'inner circle di padre Pio, e che approfittavano del privilegio per fare il bello e il cattivo tempo: manovrando i biglietti numerati e le liste di iscritti, dettando al cappuccino la tempistica delle confessioni. Per giunta, il carattere focoso di padre Pio lo induceva spesso a enfatizzare i propri gesti quando apriva o chiudeva la grata del confessionale, ad alzare il tono della voce quando impartiva o negava l'assoluzione, rendendo manifesto quel che avrebbe dovuto rimanere segreto. (...)

Nel corso del 1960, le invidie di larghi settori della Chiesa per il volume delle offerte raccolte dal culto garganico, la diffidenza di Giovanni XXIII verso interpretazioni troppo carismatiche dell'esperienza cristiana, le derive della pratica religiosa nel quotidiano train de vie sangiovannese combinarono i loro effetti fino a produrre una miscela esplosiva: a settantatre anni, padre Pio si trovò coinvolto in un autentico dramma, che non dovette essergli meno gravoso delle persecuzioni subite dal Sant'Uffizio tre decenni prima. Fattore scatenante della crisi fu l'iniziativa di alcuni suoi avversari - ispirati da un prelato romano, don Umberto Terenzi, e forti di una quinta colonna all'interno del convento di Santa Maria delle Grazie - di collocare apparecchi registratori nella cella e forse addirittura nel confessionale di padre Pio, per spiare i risvolti più intimi nella vita dell'altro Cristo. A quanto sembra, il Sant'Uffizio non fu all'origine dell'im-presa. L'assessore della Sacra Congregazione, monsignor Pietro Parente, partecipò comunque dei suoi sviluppi nel momento in cui, durante la primavera del '6o, mise mano sulle bobine registrate a San Giovanni Rotondo. Ma soprattutto notevole fu l'impatto dell'intrigo sopra il pontefice in persona: papa Roncalli trasse spunto dalla vicenda per emettere su padre Pio un giudizio severissimo.

Le agende private di Giovanni XXIII rappresentano una fonte preziosa per monitorare, dall'apice di Santa Romana Chiesa, il conto alla rovescia della bomba a orologeria che scoppiò nei Palazzi Vaticani il 25 giugno 1960. In una Nota sparsa del 30 gennaio, papa Roncalli si interessava da presso alla cerchia delle donne intorno a padre Pio, appuntando i nomi di «tre fedelissime: Cleonice Morcaldi, Tina Bellone e Olga Ieci». «Talora appare una contessa non meglio precisata», continuava la nota nell'agenda, che sollevava interrogativi apparentemente futili per un papa impegnato a organizzare il Concilio Vaticano II: «Contessa è un vero titolo oppure un nomignolo?». L'attenzione di Giovanni XXIII per tutto quanto riguardava le presenze femminili accanto a padre Pio («anche la Cleonice è chiamata regina») si spiegava con un'antica ossessione di Roncalli, il suo totale disgusto alla sola idea di un contatto fisico con le donne. Ma si spiegava anche con l'effettiva promiscuità tra chierici e laici all'interno del convento garganico. (...)

Il 25 giugno, il conto alla rovescia raggiunge il numero zero. Entrato in possesso delle bobine registrate nel Gargano, l'assessore del Sant'Uffizio non può fare altro che trasmettere la bomba al Santo Padre. E papa Roncalli ne resta colpito a tal punto da evitare di descrivere nella sua agenda - privata, ma in qualche modo ufficiosa - il proprio stato d'animo, ch'egli confida a quattro foglietti rimasti inediti fino a oggi: «Stamane da mgr. Parente, informazioni gravissime circa P.P. e quanto lo concerne a S. Giov. Rotondo. L'informatore aveva la faccia e il cuore distrutto. Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi ad una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia ad una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un'anima da salvare, e per cui prego intensamente. L'accaduto - cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referuntur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona - fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall'immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti.»

Al là delle formule di cautela, Giovanni XXIII non dubita della verità di quanto riferito dall'assessore del Sant'Uffi-zio, non sospetta che le notizie sulla vita immorale di un frate malato e ultrasettantenne possano essere false: che derivino - sarà questa la spiegazione degli amici di padre Pio - dall'anormale devozione di una figlia spirituale, giunta al-l'estremo di millantare rapporti carnali con lui. A papa Giovanni, l'esuberanza sessuale dell'altro Cristo appare niente più che la conferma di un «disastro di anime» ch'egli aveva diagnosticato con decenni d'anticipo: all'inizio degli anni venti, quando per due volte monsignor Roncalli aveva traversato la Puglia da responsabile delle missioni di Propaganda Fide, ma aveva preferito girare alla larga da San Giovanni Rotondo. (...)

L'indomani, Giovanni XXIII annota sul quarto e ultimo foglietto di appunti riservati: «Stamane volli vedere qui in alto il mio Segret. di Stato, il card. Tardini, e convenimmo circa il modus procedendi, con silenzio, con giustizia, e con molta carità». Dove è da leggere - fra le righe del pio gergo - l'annuncio di quanto il papa si apprestava a ordinare: una visita apostolica a San Giovanni Rotondo che valesse da religiosa profilassi, per debellare infine la «contaminazione» garganica.

 

3. Con i piedi per terra.

Il 14 luglio 1960, l'agenda privata di Giovanni XXIII registrò una conversazione con l'arcivescovo di Manfredonia, monsignor Andrea Cesarano. Al «diletto fratello degli anni di Istanbul» il papa aveva chiesto ragguagli sulla situazione di San Giovanni Rotondo, e l'arcivescovo gli aveva risposto in modo «ancora riguardoso per la persona di p. P.», però con dati preoccupanti circa il «movimento di superstizione» intorno al frate cappuccino, una «pietà vera e benefica per molti ingenui, ma terribilmente complicata con l'affarismo di molti altri». Così, Giovanni XXIII ebbe una ragione di più per tenere fermo quanto da lui convenuto con il San-t'Uffizio e la segreteria di Stato dopo la traumatizzante scoperta delle bobine riguardanti padre Pio. Del resto, già nel mese di aprile una visita apostolica a San Giovanni Rotondo era stata richiesta al pontefice dal ministro generale dell'ordine cappuccino, padre Clemente da Milwaukee: che aveva lui pure evocato la maligna influenza dei laici sul clima spirituale sangiovannese, «un ambiente di pseudo misticismo e talvolta evidente fanatismo, molto spesso unito a un reale affarismo».

La scelta del visitatore apostolico da inviare nel Gargano cadde sulla persona di monsignor Carlo Maccari, allora segretario del Vicariato di Roma. Era questi un sacerdote umbro poco meno che cinquantenne, reputato di fermo carattere e di solida pietà; nel seguito della sua carriera ecclesiastica sarebbe stato dapprima vescovo di Mondoví, poi arcivescovo di Osimo e Ancona, salvo venire bersagliato per trent'anni dai devoti di padre Pio come indegno fariseo, un persecutore mascherato da pacificatore.

(...) monsignor Maccari incontrò più volte padre Pio: i loro colloqui finirono per essere nove, tutti suggellati dal rituale del giuramento. Ma nel diario tenuto in quelle settimane, il visitatore apostolico riconobbe come tali incontri fossero presto divenuti un «vero tormento», «per lui e per me». In teoria, l'inviato dal Vaticano e il frate di Pietrelcina erano d'accordo su tutto: sulla necessità di definire lo statuto giuridico della Casa Sollievo della Sofferenza, rimasto così vago da dare luogo a molteplici abusi; sul bisogno di regolare il traffico intorno al confessionale di padre Pio, sottraendone la vigilanza all'arbitrio di tre o quattro zelatrici; sull'opportunità di mantenere a distanza giornalisti e fotografi, onde evitare una sovraesposizione mediatica del culto garganico. In pratica, monsignor Maccari e padre Pio si trovarono divisi da una barriera di reciproca diffidenza. « È ormai assodato che lui non crede a me e mi nasconde la verità: come potrei io credere alle sue affermazioni di sincerità e lealtà? », annotò Maccari dopo un mese di «estenuante ricerca della verità intorno al Padre».

All'inviato del Sant'Uffizio, padre Pio non celò il proprio sospetto che le gerarchie vaticane volessero impadronirsi della fontana di carità rappresentata dalle offerte dei fedeli: che l'accanimento contro di lui muovesse dalla cupidigia di larghi settori della Chiesa. Quanto al resto, padre Pio concedette ben poco alle istanze di monsignor Maccari, che invano si sforzava di persuaderlo del comune interesse per una regolata devozione. Le scene di fanatismo delle pie donne nella chiesa e nel parlatorio? «Mi ha chiesto ripetutamente, quasi implorato, che almeno non fosse proibito il bacio dopo la confessione». L'insistenza dei pellegrini nel vedere da vicino padre Pio, quando non disponevano di un biglietto numerato per confessarsi da lui? Naturale che l'amministra-zione del Santissimo Sacramento potesse essere vissuta da alcuni come «una specie di "spettacolo"». Le campagne di stampa a supporto della vox populi, giornali, settimanali, libri di pietà? «Ha commentato con una certa vivacità: "I giornali e i fotografi non li ho mai potuti vedere, ma che ci posso fare io? Quanto ai libretti di pietà, ci pensino i Vescovi, che li approvano" ». Un muro di gomma, padre Pio: «reticenze, restrizioni mentali, bugie: ecco le armi usate per sfuggire alle domande». «Impressione generale: penosa! », fu la conclusione affidata dal visitatore apostolico al segreto del diario.

Nonostante la severità del suo giudizio privato, nella relazione per il Sant'Uffizio monsignor Maccari seppe pervenire a una rappresentazione equanime della figura di padre Pio come sacerdote. Dimostrò indulgenza verso le lacune di una formazione religiosa e di una preparazione teologica fatte alla buona, nel Mezzogiorno di inizio Novecento, per la salute cagionevole del seminarista. E glissò sul ricovero di padre Pio, durante la Grande Guerra, «all'ospedale degli "autolesionisti"». Venendo al presente, Maccari descrisse una giornata del frate tra altare e confessionale riconoscendola faticosa per un uomo di quell'età, sebbene lungi dall'essere prodigiosa. Giudicò irreprensibile la celebrazione quotidiana della messa. E trasse un bilancio positivo del ministero penitenziale di padre Pio, che pure non andava esente da critiche formali (la mancanza della tendina al confessionale, lo strapotere delle pie donne nella gestione dei tempi e degli spazi). (...) Ma il visitatore apostolico respinse lo stereotipo devoto di un padre Pio ascetico, troppo assorbito dal dialogo con l'ultraterreno per curarsi di terrene vanità. «Innumerevoli fili, visibili e no, lo tengono in vivo contatto con l'esterno»; «il celebre Cappuccino vive nel mondo d'oggi, soprattutto nel suo mondo, e ci vive coi piedi per terra». La vita di padre Pio si fondava anzi su un eccesso di «contaminazioni tra il sacro e il troppo umano».

Il rapporto di monsignor Maccari al Sant'Uffizio indugiava sulla routine sangiovannese, ordinaria e straordinaria al tempo stesso. In particolare, conteneva un ritratto delle tre donne che componevano la cupola della devozione locale: al vertice Cleonice Morcaldi, un gradino più sotto Tina Bellone e Caterina Telfner. La prima, maestra in pensione, era «intelligente e scaltrissima». Di dubbia avvenenza («statura leggermente sotto la media, appesantita dagli anni e da qualche acciacco, con una smorfia alla bocca derivante da paralisi»), Cleonice aveva un eloquio facile e chiaro, ed era capace di discorrere di cose spirituali quasi fosse una badessa. Esercitava un controllo diretto sul flusso di denaro che si muoveva avanti e indietro dal convento dei cappuccini alla Casa Sollievo della Sofferenza, e non disdegnava l'omaggio di quanti mostravano di credere che lei stessa fosse dotata di speciali carismi. Secondo la denuncia di Elvira Serritelli - che si autoaccusò presso Maccari di essere stata l'amante di padre Pio dal 1922 al 1930 - era Cleonice che l'aveva rimpiazzata dal '30 in poi, senza più perdere i favori carnali dell'alter Christus".

Tina Bellone era la più giovane delle tre fedelissime. Nubile e benestante, aveva preso casa a ridosso del convento per essere più vicina alla chiesa, dove andava e veniva «con la violenza cieca dell'isterica». Per il visitatore apostolico, era il «tipo classico della squilibrata». Più pittoresca la figura della contessa Telfner, una donna sulla quarantina che doveva il titolo gentilizio a un nobile di Perugia che aveva accettato di sposarla dopo averla sedotta come cameriera. Entrambi si erano poi trasferiti a San Giovanni Rotondo, dove il conte svolgeva le funzioni di amministratore unico della società immobiliare annessa alla Casa Sollievo. Monsignor Maccari aveva incontrato tre volte la contessa, ricavandone un'impressione «pietosa». Slanciata nel fisico, fresca nel colorito, Caterina Telfner si univa a Tina Bellone e Cleonice Morcaldi per saltare addosso a padre Pio alla fine di ogni messa, baciandolo «sul petto, sulle braccia», «carezzandolo, palpandolo». E il cappuccino le lasciava fare, spingendo il maresciallo dei carabinieri di stanza a San Giovanni a commentare con il visitatore apostolico: «se non fosse lui e non fosse vecchio, direi che è innamorato!» (...)

Monsignor Maccari sospese il giudizio intorno al carattere più o meno carnale del rapporto di padre Pio con le donne predilette: lasciò intendere di considerare inattendibile l'autoaccusa di Elvira Serritelli, ma non escluse la possibilità che il frate avesse ceduto alle tentazioni con Cleonice Morcaldi. In ogni caso, quanto più premeva al visitatore apostolico era richiamare l'attenzione del Sant'Uffizio sulla natura globale del fenomeno padre Pio. Il «fanatismo» non esauriva la propria carica in loco, si irradiava dovunque vi erano figli spirituali del cappuccino, sempre più dava luogo a «fermenti di idolatria e forse anche di eresia». Veicolata dai foglietti a stampa nelle mani dei pellegrini, dai santini effigiati con la foto del «primo sacerdote stigmatizzato», dagli strilli di copertina dei rotocalchi, addirittura dall'incisione di dischi che riproducevano «la vera voce di Padre Pio da Pietrelcina», la propaganda del culto garganico aveva assunto il carattere di un'«industria», che reclamizzava il prodotto - il miracolo - secondo «concezioni religiose oscillanti tra la superstizione e la magia». Intanto, per il tramite di accuse continuamente rinnovate contro le gerarchie ecclesiastiche e perfino contro il Sommo Pontefice, i gruppi di preghiera convergevano nell'annuncio profetico di una missione eccezionale e misteriosa che il Signore aveva affidato a padre Pio.

E padre Pio stesso, in tutto ciò? «Ecco un altro lato sconcertante nella figura di questo religioso». Il frate aveva un bel fingersi estraneo all'agitarsi di tanti pensieri e di tante passioni intorno a lui, in realtà non era per nulla alieno dalla «macchina [...] mastodontica» della propaganda. Una sua azione decisa avrebbe frenato lo zelo dei seguaci, eppure il cappuccino di San Giovanni si era sempre guardato dall'in-traprenderla. Vi era qualcosa in lui di irriducibilmente ambiguo, che sfuggiva all'esame di frasi e gesti, confidenze e silenzi. Come escludere che padre Pio in persona fosse l'ispiratore materiale oltreché spirituale di un'«organizzazio-ne così vasta e pericolosa»? Forse, proprio a lui faceva capo la «vastissima rete che, in buona o meno buona fede, prepara psicologicamente l'avverarsi di fatti "straordinari" (difficilmente dimostrabili), di "conversioni" (che, grazie a Dio, ci sono attorno a ogni sacerdote zelante), di fama di "santità", ecc. ecc.».

(...) L'inviato del Vaticano a San Giovanni Rotondo concluse la propria relazione indicando al Sant'Uffizio una serie di misure pratiche: ennesimo tentativo da parte della Chiesa di risolvere il problema padre Pio. Monsignor Maccari raccomandò di procedere al graduale ricambio dei frati nel convento di Santa Maria delle Grazie, e di nominare il padre guardiano, in futuro, scegliendolo sempre da un'altra provincia. Sollecitò la definizione di uno statuto giuridico per la Casa Sollievo della Sofferenza, proponendo di distinguere più nettamente il ruolo dei cappuccini da quello dei medici, l'assistenza religiosa dall'assistenza sanitaria. Suggerì maggiore prudenza nella concessione degli imprimatur diocesani a libri di pietà riguardanti padre Pio. Consigliò di posticipare di qualche ora la sua messa mattutina. Infine, propose di vietare alle fedelissime di confessarsi più di una volta al mese. Di lì a poco - nel dicembre del 1960 - il Sant'Uffizio si impegnò ad applicare le raccomandazioni di Maccari, traendo dall'insieme della missione un bilancio poco intonato alla fama di santità del frate di Pietrelcina: «La Visita ha confermato certi dubbi penosi sullo spirito e la condotta del Padre Pio, specialmente per quanto riguarda l'obbedienza alle regole monastiche, il suo sistema ascetico, la riservatezza nei rapporti con le donne».

(...) Il 9 settembre 1960, dopo avere ricevuto monsignor Maccari in udienza a Castelgandolfo, il papa aveva tratto un privato, impietoso bilancio della visita apostolica che si avviava a conclusione: «Purtroppo laggiù il p. P. si rivela un idolo di stoppa». Ove si consideri che la stoppa riveste da secoli, nel cerimoniale pontificio, il significato di simbolo della transitorietà umana e della caducità di ogni gloria terrena, tanto più sarà dato di misurare la severità della metafora applicata a padre Pio da Giovanni XXIII.