Papa, le due facce del viaggio
di Gian Giacomo Migone
in “l'Unità” del 21 aprile 2008
Curiosamente molti media hanno riferito e commentato il viaggio di Benedetto XVI negli Stati
Uniti come un evento, se non puramente ecclesiale, comunque centrato su un solo protagonista: il
Pontefice e la Chiesa che egli incarna. Forse varrebbe la pena ricordare che il Paese che lo ha
accolto è tuttora il principale protagonista della politica mondiale, per di più impegnato, oltre che in
due guerre, in una fase elettorale tesa e ricca di incognite, che potrebbe preludere a rilevanti novità.
Quali sono state le ripercussioni di quel viaggio dal punto di vista di coloro che lo hanno ospitato?
È importante la successione degli eventi, perché la prima parte del soggiorno del Pontefice è
dedicata alla visita di Stato a cui segue l'intervento all'Assemblea Generale dell'Onu e il dialogo con
i fedeli della Chiesa americana.
Anche se voci laiche e progressiste come il
New York Times e l'International Herald Tribune hannopreferito non enfatizzare, e non per caso, l'accoglienza riservata a Benedetto XVI: la presenza del
Presidente Bush di fronte alla scaletta dell'aereo in arrivo da Roma, del tutto insolita nel cerimoniale
di Washington; l'accoglienza alla Casa Bianca con ventun colpi di cannone e ripetuti onori militari;
soprattutto la presenza nei giardini della residenza ufficiale di migliaia di selezionati ospiti
provenienti da tutte le diocesi del paese. Tutti segni di una chiara volontà, reciprocamente valutata e
anche concordata - le visite di Stato vengono preventivamente negoziate in ogni dettaglio e i
discorsi ufficiali dei protagonisti reciprocamente vagliati - che ha assunto la forma di precisi
messaggi mediatici. Anche se una più approfondita analisi filologica rivelerebbe distinguo anche
importanti, nella nostra epoca ciascun protagonista non ingenuo non può che essere ritenuto
responsabile, almeno in linea generale delle traduzioni mediatiche di quanto afferma. È questa la
lezione dell'incidente di Tubinga in cui la citazione di un imperatore di Bisanzio da parte di un dotto
teologo divenne, forse al di là delle sue intenzioni, il cuore del messaggio del Papa che era
diventato, nei confronti dell'Islam.
A Washington non vi è stato luogo per incidenti di questo genere, né si sarebbe potuto parlare di
Islam in un paese il cui rispetto del pluralismo culturale religioso costituisce una condizione di
convivenza (qualcuno forse ricorda lo sconcerto di Washington di fronte all'affermazione della
superiorità della civiltà cristiana rispetto a quella islamica, da parte di Silvio Berlusconi). Tuttavia,
sono risultati chiari a sufficienza i messaggi emersi dallo scambio di vedute che ha segnato la prima
parte del viaggio, più rilevante dal punto di vista mediatico. In primo luogo vi è stato un reciproco
riconoscimento del principio di difesa della vita, con chiara allusione alla polemica antiabortista che
infuria negli Stati Uniti, senza riferimenti alla guerra in Iraq, vigorosamente osteggiata da Giovanni
Paolo II. È da notare che, a quanto è dato conoscere dalle cronache giornalistiche, a questo
proposito nessuna osservazione da parte vaticana è stata fatta alla pena di morte, di cui come è noto
il presidente Bush è uno zelante sostenitore, tornata alla ribalta attraverso una sentenza della Corte
Suprema che ne sospende la moratoria negli Stati Uniti.
Forse ancora più importante è stato il riconoscimento di
defensor fidei (anche se tale espressionenon è stata usata dal Pontefice) riservato agli Stati Uniti, se non proprio al presidente in carica, ed
una duplice accezione. In primo luogo in quanto paese in cui riferimenti a motivazioni di ispirazioni
religiose nel dibattito pubblico hanno piena cittadinanza. Se l'intenzione fosse quella di un
confronto con l'Europa e, in particolare, con paesi a regime concordatario come l'Italia, vi è da
osservare che tale caratteristica del dibattito politico americano, in cui pochi candidati a cariche
pubbliche si sottraggono ad un confronto con le comunità religiose sulla base delle loro convinzioni
di fede, è accompagnato da una più netta separazione tra Stato e Chiesa e, sulla base dello stesso
principio, da un riconoscimento pubblico della pluralità delle fedi religiose.
In secondo luogo, il Pontefice ha tributato agli Stati Uniti un ruolo trainante nella lotta al
terrorismo, senza mai qualificarlo come islamico per le ragioni anzidette. La formula, coniata
dall'Amministrazione Bush, di «guerra al terrorismo» non è stata ne affermata ne criticata dal suo
ospite. Tuttavia, il discorso pronunciato di fronte all'Assemblea Generale dell'Onu ha consentito a
Benedetto XVI di ribadire un principio e una regola cui egli ha attribuito valore universale, ma che
assume particolare significato nei confronti di un presidente che aveva appena rivendicato come
propria la decisione di usare la tortura negli interrogatori di presunti terroristi. Di fronte a delegati di
tutto il mondo, nella sede in cui Paolo VI pronunciò il suo sofferto appello contro la guerra («Jamais
plur la guerre!»), Papa Benedetto ha fondato la sua nota presa di posizione contro il relativismo
culturale sulla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e sulla carta dell'Onu organizzazione da
sottrarre alla volontà degli Stati più potenti, in tal modo evitando di presentarla come la
riaffermazione di un dogma religioso.
Quando egli afferma che «la lotta al terrorismo deve essere condotta nel rispetto dei diritti. La
promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le diseguaglianze tra
paesi e gruppi sociali come per accrescere la sicurezza» (è la citazione riportata nella striscia rossa
di ieri), il Pontefice delinea una prospettiva futura in cui tutti possiamo riconoscerci, anche se
un'attenta lettura politica della prima fase della sua visita negli Stati Uniti ha costituito un solido
aiuto ad un presidente repubblicano alla ricerca di voti cattolici tradizionalmente democratici