Pio XI e quel razzismo d'Africa
di Sergio Luzzatto
“Corriere della Sera” del 5 novembre 2008
La «Giornata della Fede» è rimasta a lungo iscritta non soltanto nelle memorie, ma anche sui corpi
(sulle mani) degli italiani. Il 18 dicembre 1935, in risposta alle sanzioni decretate contro il regime di
Mussolini dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia, le coppie d’Italia furono
chiamate a sostenere lo sforzo bellico del fascismo donando «oro alla patria»: contribuendo alle
spese di guerra attraverso l’offerta degli anelli nuziali. Fu un gigantesco rituale di massa, celebrato a
Roma come nel più minuscolo comune del Regno. Nella sola capitale, oltre centomila fedi d’oro
vennero deposte sull’Altare della Patria da brave donne italiane — per prime, la regina Elena e
donna Rachele— che orgogliosamente si misero al dito, in cambio, fedi d’acciaio. La Chiesa
cattolica collaborò attivamente alla raccolta dell’oro. Con lettere pastorali, omelie, fogli diocesani,
gran parte del clero fece propri gli slogan della pubblicistica di regime.
Già il 4 dicembre, con due settimane di anticipo sulla Giornata della Fede, Mussolini poté ordinare
ai prefetti di esprimere ai vescovi di ogni provincia la piena soddisfazione del governo fascista. Il
sostegno della Chiesa riuscì allora tanto più utile al regime in quanto la vera nuziale, per la
maggioranza degli italiani, era anzitutto un segnacolo religioso: valeva da promemoria del patto
matrimoniale stretto dalla coppia presso un altare, era il materico simbolo di un sacramento. Se il
mondo cattolico poté aderire massicciamente alla guerra di Mussolini in Africa, fu anche perché
l’impresa d’Etiopia traduceva il mito fascista della romanità nei codici di una cultura missionaria.
I soldati del Littorio promettevano di consegnare la fede romana a popoli semibarbari: la «crociata»
in Abissinia veniva combattuta affinché trionfassero, insieme, le ragioni imperiali del fascismo e
quelle universali del cattolicesimo.
Nondimeno, gli storici più avvertiti hanno iniziato da qualche tempo—sulla scorta dei documenti
d’archivio relativi al papato di Pio XI, accessibili dal 2006—a sfumare l’immagine troppo nitida e
netta di una Chiesa compattamente schierata dietro le legioni del Duce. In particolare gli studi di
Lucia Ceci, docente di Storia contemporanea all’università di Roma Tor Vergata, hanno
documentato sforzi notevoli della Santa Sede, e di Pio XI in persona, per fermare la macchina
bellica di Mussolini. Alla vigilia della dichiarazione di guerra, Pio XI aveva preparato una lettera
privata per il Duce dove gli chiedeva, in sostanza, di rinunciare all’invasione dell’Etiopia. Papa
Ratti aveva poi deciso di non inoltrare la missiva, ma fino all’ultimo aveva fatto pressioni su
Mussolini «per non mettere l’Italia in stato di peccato mortale». Né le gerarchie vaticane tacquero
del tutto a mobilitazione avvenuta, dopo il fatidico discorso mussoliniano del 2 ottobre 1935.
Estensore materiale della bozza di lettera di Pio XI al Duce, monsignor Domenico Tardini affidò a
un documento riservato per il papa l’espressione del proprio disgusto nei confronti del «clero
esaltato e guerrafondaio». Mentre la Segreteria di Stato diffuse, il 30 novembre, precise istruzioni
«da impartire verbalmente ai vescovi d’Italia»: durante la Giornata della Fede, si limitassero i
vescovi al campo della preghiera, badando di «non esprimere giudizi sul diritto e la giustizia
dell’impresa abissina».
Ora che conosciamo meglio il travaglio della Chiesa di Pio XI a fronte dell’avventura imperiale di
Mussolini, a maggior ragione restiamo colpiti da nuovi documenti inediti che Lucia Ceci ha
rinvenuto nell’Archivio segreto vaticano e che saranno da lei presentati, in questi giorni, a un
convegno della Fondazione Salvatorelli. Sono materiali più tardi, relativi all’estate del 1937:
quando ormai da un anno si è consumata la presa militare di Addis Abeba, ed è stato proclamato un
impero del quale Pio XI (a dispetto delle tormentate sue iniziative diplomatiche del ’35) ha creduto
bene di rallegrarsi pubblicamente. Dopo il disordine della guerra, in Africa orientale italiana è
venuto il momento di fare ordine. Ed è venuto il momento di farlo a partire dalle alcove, dove
troppi soldati e troppi coloni si consolano della distanza da casa fra le braccia amorevoli di qualche
«faccetta nera». In Africa orientale italiana è suonata, insomma, l’ora di una legislazione sulla razza.
Dietro impulso del ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, il regime ha appena introdotto la
«legge sul madamato», che punisce con la reclusione da uno a cinque anni il concubinato di un
cittadino italiano con «una persona suddita dell’Africa orientale». Adesso—siamo ai primi d’agosto
del ’37 — il ministro Lessona sta chiedendo al nunzio vaticano in Italia, Francesco Borgongini
Duca, un appoggio diretto della Santa Sede alla legislazione razziale, per scongiurare il rischio
concreto di una proliferazione dei meticci. Infatti, «disgraziatamente », i figli nati dall’amplesso di
uomini bianchi con donne nere «portano sommati i difetti e non i pregi delle due razze». Perciò
l’Italia fascista invoca il contributo della Chiesa cattolica nel «dissuadere unioni tra persone di
diversa razza»: «appunto per evitare le nascite dei mulatti, che sono dei degenerati». Risalendo per
via gerarchica, la richiesta di Lessona approda sulla scrivania di Pio XI, che sollecita un avviso del
cardinale Domenico Jorio, prefetto della Congregazione dei sacramenti. E il 24 agosto 1937, il
cardinale Jorio mette per iscritto, all’attenzione di Papa Ratti, un parere sconcertante rispetto al
senso comune della morale cattolica. Sì, «a mezzo dei Missionari», la Chiesa avrebbe
effettivamente potuto, anzi avrebbe dovuto collaborare— «nei giusti limiti» del diritto canonico —
alla campagna per la «sanità della razza». Le «ibride unioni» andavano impedite «per i saggi motivi
igienico-sociali intesi dallo Stato»: «la sconvenienza di un coniugio fra un bianco e un negro», e «le
accresciute deficienze morali nel carattere della prole nascitura». Segue l’approvazione papale del
documento firmato dal cardinale Jorio, trasmesso alla nunziatura d’Italia già il 31 agosto di quel
1937: per la gioia del ministro Lessona, «lieto delle sagge disposizioni della Santa Sede».
Spolverata dagli archivi vaticani grazie alle fondamentali ricerche di Lucia Ceci, questa non è che
una pagina fra le tante, nell’alterna vicenda del rapporto fra il Vaticano degli anni Trenta e i regimi
razzisti. Ma è una pagina
che avremmo preferito non leggere