Il
dubbio cristiano sul popolo d’Israele
di
Gad Lerner
in
“
Destreggiandosi
invano fra la luce e le tenebre, un infelice artifizio dialettico rivela oggi
agli ebrei
che
sanare.
Avendo
elevato la lotta contro il relativismo a priorità del suo magistero, Benedetto
XVI deve anzi
ribadire
con forza quell’imperativo – la conversione degli ebrei - che i suoi
predecessori avevano
deciso
di mettere in sordina.
Da
mezzo secolo, ormai,
relativista
a proposito della conversione degli ebrei. Fondamento di dottrina che si
richiama a San
Paolo
e da cui, per oltre diciannove secoli, trassero alimento la diffidenza e il
disprezzo nei
confronti
del popolo della Bibbia, colpevole di negare la divinità di Cristo. Se di nuovo
quel
proposito
di correzione-conversione viene ribadito come elemento decisivo della fede
cristiana, sarà
difficile
farlo coesistere con la ricerca dell’amicizia in uno spirito di
riconciliazione.
Lo
rivelano le modifiche testuali, solo in apparenza attenuative, disposte dal
Vaticano nel messale
del
rito tridentino per il venerdì santo, quello da cui nel 1959 Giovanni XXIII
eliminò l’odioso
riferimento
alla perfidia ebraica. Al posto della preghiera per il “popolo accecato”
perché “sia
strappato
alle tenebre”, oggi il Vaticano formula un eufemistico auspicio: “Preghiamo
anche per gli
ebrei,
affinché Iddio Signore nostro illumini il loro cuore e riconoscano
Gesù Cristo come Salvatore
di
tutti gli uomini” (i corsivi sono miei).
Non
è piacevole essere oggetto di una tale speciale attenzione, risparmiata ad
altri popoli. Poco
cambia,
evidentemente, che i riferimenti all’accecamento e alle tenebre vengano
sostituiti
dall’augurio
di illuminazione e dalla speranza di riconoscimento. Questa nuova preghiera che
confida
in una provvidenziale folgorazione degli ebrei – che finalmente desistano
dall’errore -
adegua
l’argomento con cui numerosi santi e dottori della Chiesa definirono gli
erranti come
“popolo
maledetto”. Un insulto rimosso, quest’ultimo. Ma potenzialmente implicito
nell’attesa di
una
resipiscenza ebraica, condizione indispensabile per
storia.
Prima o poi è necessario che gli ebrei, per quanto rispettabili nella loro
ingiustificata
ostinazione,
riconoscano
loro
terra.
Per
secoli
sulla
scia del Concilio, a sconsigliare l’uso di questa espressione tipica di una
teologia sostitutiva
per
cui l’Alleanza del Monte Sinai sarebbe invalidata e soppiantata dalla Nuova
Alleanza. Dunque
coloro
che non vollero riconoscerla sarebbero per questo condannati al disprezzo, fin
tanto che non
si
convertiranno.
Si
spiegano così la protesta e la pausa di riflessione annunciate dall’assemblea
rabbinica italiana nel
dialogo
con
presidente
Giuseppe Laras. Il Vaticano, infatti, non aveva alcuna necessità immediata di
introdurre
questo
nuovo testo, visto che già nel 1970 Paolo VI l’aveva completamente modificato
la preghiera
del
venerdì santo, limitandosi all’augurio, ben diverso, che il popolo ebraico
sia fedele alla sua
Alleanza.
E’
interessante ricordare che lo stesso Paolo VI –come confermano suoi appunti
scritti- nel 1964
restava
contrario a una dichiarazione conciliare sul popolo ebraico nella quale mancasse
un
riferimento
all’imperfezione e alla provvisorietà della sua condizione, visto che “tale
speranza è
esplicitamente
espressa nella dottrina di S: Paolo sugli ebrei”. Papa Montini preferì allora
custodire
nell’intimo
tale convincimento. Un anno dopo vide la luce la “Nostra Aetate” con cui
scagionava
gli ebrei dall’accusa di deicidio, senza riferimento alla necessità della
loro conversione.
Da
allora molto cammino si è compiuto, allietato da storici gesti di
riconciliazione e promesse
d’amicizia.
Ma
l’elaborazione
di una nuova teologia che archivi definitivamente la teologia sostitutiva.
Non
a caso, per motivare la scelta vaticana di riproporre –così infelicemente
modificato- il messale
in
vigore nel 1959, il cardinale Kasper s’è richiamato alla dichiarazione
“Dominus Iesus” pubblicata
nell’agosto
2000 dalla Congregazione per
Riaffermando
solennemente che non vi sono altre vie d’accesso alla Verità e alla Salvezza
al di fuori
di
Gesù Cristo, la “Dominus Iesus” giunse come una doccia fredda a
ridimensionare, sei mesi dopo,
i
“mea culpa” del Giubileo. La centralità di fede della conversione degli
ebrei tornava così tema
prioritario,
e pietra d’inciampo, nel dialogo interreligioso.
Venne
di conseguenza, nell’ottobre 2005, la designazione del cardinale Lustiger,
eminente figura di
ebreo
convertito, per la commemorazione in Vaticano del quarantesimo anniversario
della “Nostra
Aetate”.
La stessa biografia di Lustiger testimoniava un’accezione del dialogo
finalizzata alla
conversione.
Il rabbino capo di Roma decise per questo di disertare la cerimonia.
Il
medesimo filo conduttore di una fede che non ammette relativismi, congiunge la lectio
magistralis
di Ratisbona – dove il papa rivendicava una sorta di dominio sulla
ragione - con la
proposta
agli ebrei di un dialogo somigliante ad un’amicizia sopraffattrice.
Settant’anni
dopo le leggi razziali che “Civiltà cattolica” nel 1938 criticava
debolmente,
riconoscendovi
benefici elementi di opportunità, viviamo per fortuna un’epoca completamente
diversa.
Ma la questione teologica rimane irrisolta, così come la fatica cristiana di
confrontarsi con
il Gesù ebreo.