Razzisti ma guai a dirlo
di Moni Ovadia
l'Unità del 20 agosto 2008
Alcuni anni fa, all’epoca delle prime rozze manifestazioni di linguaggio xenofobo e pararazzista di
cui si servivano e si servono diversi esponenti della Lega Nord, è circolata per alcuni mesi,
divenendo celebre, una barzelletta che mirava a stigmatizzare con un paradosso, quello squallido
linguaggio e tutto il ciarpame che vi sta dietro. La barzelletta è questa: un vucumprà africano entra
in un bar per proporre la sua mercanzia. Il proprietario dell’esercizio, appena ne percepisce la
presenza, lo apostrofa con male parole e lo caccia dal locale a spintoni, fuori dalle balle brutto
negro! Il malcapitato vucumprà reagisce, razzista! E il barista rabbioso, non sono io che sono
razzista è lui che è negro! L’autore di questa barzelletta descrive quello strano ibrido di razzismo e
di indignata permalosità, che caratterizza molti esponenti dell’attuale esecutivo che pretendono di
avere la libertà di varare provvedimenti di stampo autoritario e razzista, ma trovano intollerabile
l’essere accusati di razzismo ed autoritarismo.
Ora, se ad accusarli è un organo di stampa o un organizzazione che essi possono agevolmente
collocare nell’amplissimo spettro dell’internazionale comunista - ovvero tutti i partiti non alleati e
non proni alla volontà di Berlusconi e il 90% della carta stampata e dei media televisivi - non ci
sono problemi, ma se a farlo è il più diffuso settimanale cattolico del paese, per gli esponenti più
avveduti del Pdl la questione si fa più spinosa. Bisogna che la Santa Sede e la Conferenza
Episcopale prendano le distanze, il che puntualmente avviene. I rappresentanti più guasconi della
destra, come l’acuto Gasparri e il crociato Giovanardi, tripudiano e sentenziano: Famiglia Cristiana
è un orrido foglio bolscevico! Ma il sommo pontefice Benedetto XVI, a mio parere, si rende subito
conto dell’insidioso scivolone commesso dalle gerarchie con la troppo calorosa e troppo schierata
presa di distanza dal direttore di Famiglia Cristiana Don Sciortino, e corregge il tiro con una vibrata
omelia contro il pericolo attuale e presente del razzismo. Un indignato Giovanardi si affretta a
precisare che il Papa parla in generale e non si riferisce certo all’Italia, e lui lo può ben dire perché
milita nell’Associazione Italia-Israele dall’età di diciotto anni e dunque lui ha il certificato di buona
condotta antirazzista rilasciato da qualche buon «parroco» ebreo che vuole tanto bene al governo
israeliano. Il mitico Giovanardi ci scuserà se dissentiamo da lui e pensiamo che Benedetto XVI, pur
senza farne menzione per ovvie ragioni di prudenza, si riferisca proprio all’Italia. Il pontefice è
tedesco, è stato bimbo e adolescente mentre il nazismo celebrava i suoi «fasti», sa quali sono i frutti
avvelenati del razzismo, anche del più «ragionevole», sa bene quale irrimediabile vulnus
riceverebbe la Chiesa qualora oggi, il suo pastore, non si schierasse risolutamente contro la peggior
peste della storia dell’umanità.
Proviamo anche noi a pensare per un istante cosa sarebbe accaduto se il provvedimento di prendere
impronte digitali ai bimbi rom, l’avesse presa un ministro degli interni tedesco. Al ministro Maroni
non piace essere considerato un razzista, è comprensibile, probabilmente in termini assoluti non lo
è, si limita ad usare la suggestione razzista per scopi politico-elettorali. Ma questo calcolo è
comunque razzista, così come è razzista chi glissa, chi attenua, chi volge la testa da un’altra parte.
Le ramificazioni della pandemia razzista sono molteplici, alcune sono sotterranee, ambigue,
sfuggenti, per riconoscerle è meglio fare riferimento agli specialisti della questione e, anche se non
sono gli unici titolati, i grandi specialisti di razzismo sono inequivocabilmente le minoranze e le
genti che lo hanno subito.