L’EQUIVOCO DI UNA RELIGIONE CIVILE
Gustavo Zagrebelsky
la Repubblica del 31-10-2008
È un fenomeno che avviene sotto i nostri occhi e che papa Benedetto XVI ha teorizzato. Ma che è in conflitto con lo Stato laico. La Chiesa offre la teologia e i suoi valori come tessuto connettivo alle società occidentali di cui si presume il disfacimento. La riproposizione di una funzione antichissima, addirittura originaria. L´attacco a un sistema definito materialista, nichilista, privo di nerbo morale.
Sotto i nostri occhi, si svolge una mutazione nel
rapporto tra la Chiesa e la società: dalla religio (o theologia) socialis dell´ultimo
scorcio del XIX secolo, alla religio (o theologia) humana della seconda parte
del secolo scorso, alla religio (o theologia) civilis (o politica) del tempo
attuale, quando la religione si offre come tessuto connettivo di società
politiche in auto-disfacimento:
«Prendere una chiara coscienza della funzione insostituibile della religione
per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare,
insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella
società» (parole del papa Benedetto XVI, durante la visita a Parigi il 13
settembre 2008). Quest´ultimo il «consenso etico di fondo» , un concetto
molto ambiguo che non si sa che cosa significhi (ma forse qualcuno, con lo
sguardo rivolto alla storia della Chiesa, può temere di saperlo), è il punto
che riguarda la situazione odierna. (...)
L’ultimo passaggio, la religio civilis, è presentato come un prodotto della
«post-modernità» o del «post-secolarismo». Ma è un ricominciare da capo,
poiché, in verità, essa è la riproposizione di una funzione antichissima,
anzi addirittura originaria, della religione come fattore politico, secondo il
senso che quella formula assume nella classica tripartizione sviluppata nelle
Antiquitates di Marco Terenzio Varrone, di cui Agostino d´Ippona, nel De
civitate dei (libri VI e VII), dà ampio ragguaglio: «religione civile» come
pratica religiosa dei sacerdoti a vantaggio non della vita eterna delle anime,
ma come salute dei popoli e delle città e come fattore connettivo, o
presupposto socializzante della convivenza nelle comunità umane.
Questa ri-proposizione è avvenuta nell´ambito del dibattito odierno circa le
«premesse sostanziali», necessarie alla vita delle istituzioni liberali e
democratiche: premesse che questo è l´assunto «lo Stato liberale
secolarizzato» non sarebbe in grado di garantire. L´interesse di questa
posizione sta in questo, che la fondazione della vita politica su premesse
religiose è prospettata come un atto di amicizia, non d´inimicizia, nei
confronti delle società liberali, altrimenti votate al suicidio o, comunque,
alla propria fine. Questa denuncia teorica, circa l´incapacità delle
democrazie liberali di garantire i propri presupposti normativi, si accompagna,
come conferma empirica, a una fiorente letteratura sulla decadenza delle società
occidentali, parallela a quella corrente nell´Europa del secolo scorso tra le
due guerre mondiali.
Queste società, materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive
di nerbo morale, preda di pulsioni autodistruttive, sarebbero giunte a «odiare
se stesse», secondo una vibrante accusa del magistero cattolico. I sintomi
sarebbero la diminuzione del tasso di natalità e l´invecchiamento delle
generazioni; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di
anima, fini a loro stesse e dotate di ambizioni smisurate; la riduzione della
ragione a mera «ragione strumentale» al servizio di nichilistiche volontà di
potenza; minacce esterne all´identità europea allora il bolscevismo
internazionale, oggi l´Islam: tutto questo in un ambiente di debilitazione
morale e di «relativismo», di cui il cosiddetto pensiero debole sarebbe la
teorizzazione filosofica. In questo contesto, la religione cattolica romana,
traendosene fuori e dando per presupposta la propria attualità e idoneità a
fronteggiare i problemi del presente, si propone come religione civile, come
sostegno della società politica, come medicina delle sue infermità, come
fattore d´identità ed esorcismo nei confronti della violenza che quella società
in frantumi cova al suo interno. La Chiesa può pretendere così, per questa
via, una nuova legittimazione generale per la sua parola: una legittimazione
chiaramente politica che, sul piano teorico, si accompagna negli ultimi anni, a
partire dall´enciclica Fides et ratio del 1998 all´ardita elaborazione di una
theologia naturalis che ha la pretesa di fornire alla scienze umane il «fondamento
razionale» di verità che occorre loro, traendolo dalle proposizioni della fede
cristiana. La funzione totalizzante della Chiesa, non solo nelle cose sociali,
non solo in quelle umanitarie, ma direttamente in quelle politiche, è così
fondata.
Essa può pretendere di interpretare e garantire l´«identità» l´identità
cristiana dei popoli di tradizione occidentale e, in questo, si incontra con
progetti politici che nulla hanno a che fare con la fede religiosa, ma sono
interessati a un´alleanza per la difesa di una non meglio precisata «civiltà
occidentale». (...)
In generale, è possibile, anzi necessario, sollevare il dubbio circa la
compatibilità dell´anzidetta funzione civile della Chiesa con la posizione che
a questa compete secondo la Costituzione e il regime concordatario, previsto
nell´articolo 7.
È lecita la domanda se esistano ancora le premesse di quel tipo di regolazione
dei rapporti di diritto ecclesiastico. Tale regime si basa, infatti, sulla
premessa, stabilita nel primo comma, che Stato e Chiesa sono, cioè devono
essere, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Ciò significa due
cose: innanzitutto, il riconoscimento reciproco del carattere di societas
perfecta, cioè sufficiente a sé medesima nel perseguimento dei propri compiti,
rispettivamente: il governo della società e la salvezza delle anime; in secondo
luogo, l´obbligo di non ingerenza di un «ordine» nell´«ordine» altrui.
La religio civilis è contraria a entrambe: assume l´insufficienza dell´ordine
civile a badare a sé stesso; afferma la competenza della religione in questioni
relative alla «tenuta» della società civile. Entrambe le proposizioni
ricorrono ormai pressoché incontrastate nei documenti della Chiesa (anche
quella circa lo Stato come societas imperfecta: un´affermazione d´ingerenza
grave), senza alcuna sensibile reazione da parte dell´autorità civile. La sua
subalternità, innanzitutto culturale, si tocca con mano. Il «supremo principio
di laicità» contenuto nella Costituzione (Corte costituzionale, sentenza 203
del 1989), è chiamato in causa direttamente, in quanto esso implica, come
premessa minima irrinunciabile, l´autosufficienza dello Stato.
In secondo luogo, la religione come religio civilis (cosa tutta diversa dall´indiscutibile
diritto dei credenti, come di chiunque altro, di agire politicamente ispirandosi
al proprio credo) viola il carattere liberale e democratico dell´organizzazione
politica della società civile. La funzione civile della religione dovrebbe
essere quella di fornire un legame sociale che contrasti le conseguenze
disgreganti della libertà: essa, quindi, dovrebbe sottrarsi alla sfera della
libertà, per poter svolgere questo suo compito. Come è stato detto, dovrebbe
«precedere» la libertà.
Ma, se così, dovrebbe collocarsi nell´ambito dell´esercizio di autorità. In
brevi e brutali parole, dovrebbe essere «inculcata», con i mezzi possibili di
convinzione. Con il che si tornerebbe a prima del riconoscimento, da parte della
Chiesa stessa, della libertà di coscienza come diritto umano intangibile. La
stessa Costituzione, un documento della libertà, verrebbe come messa sotto
tutela di princìpi politici elaborati nella sfera della religione.
In terzo luogo, la religione civile, in un contesto di pluralismo culturale e
religioso, comporta di per sé lesione del principio di laicità, nel suo
contenuto ugualitario. Laico è lo Stato che non prende partito a favore di una
o di un´altra religione, come pure non prende partito tra le diverse posizioni
religiose, e, ancor prima, tra queste e quelle atee o agnostiche.
Si tratta del principio di imparzialità o equidistanza in materia di
professioni di fedi e convinzioni, religiose e non religiose, principio che
vieta non solo di assumere di una religione come «religione dello Stato», ma
anche di assicurare
trattamenti privilegiati, in corrispettivo della funzione ch´essa svolge nella
compagine sociale. Soprattutto con riferimento alle religioni monoteiste, il cui
Dio è un «Dio geloso», la funzione civile della religione, però, non può
essere svolta da più religioni, in concorrenza tra loro. Più religioni
significherebbero inevitabilmente non rafforzamento di un «io comune», ma
disgregazione. Il riconoscimento alla religione di una funzione civile implica
perciò il privilegio. La tolleranza, oggi, è o sembra essere fuori
discussione. Ma la laicità non si accontenta della tolleranza (nel senso minimo
della tradizione curiale, come sopportazione dell´inevitabile), ma pretende
diritti in condizione di uguaglianza. Le religioni diverse da quella, unica,
chiamata a improntare di sé la società nel suo complesso, cioè le religioni
minoritarie, dovrebbero invece adattarsi a «vivere nella diaspora», cioè in
un ambiente sociale, politico e giuridico che è d´altri, non anche loro, dove
le proprie ragioni circa la vita buona in comune non hanno rilevanza pubblica,
dove devono accontentarsi d´essere «tollerati». È un´espressione terribile
e precisa, nell´indicare dove conduce l´assegnazione alla religione della
funzione «civile», ma tuttavia più esplicita e onesta di altre, correnti e
ugualmente orientate alla difesa di pretese identità storico-morali, come le
espressioni da cui si è preso avvio, che si avvalgono degli aggettivi
esornativi «vero», «sano», «nuovo», «positivo», e così via parlando.
Da un saggio su Micromega
(31-10-2008)