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CHIESA DEL CONCILIO, DOVE SEI?


 di Ortensio da Spinetoli

da ADISTA n° 29 del 14.3.2009

 

Non si può non trovarsi coinvolti da una siffatta domanda, soprattutto da parte di quanti hanno vissuto l’entu-siasmo della grande assise del Vaticano II e hanno coltivato la speranza di un qualche rinnovamento nella Chiesa (cfr. Ortensio da Spinetoli, “Chiesa delle origini, chiesa del futuro”, Borla 1986, in cui “più che una riforma” si invocava una sua “rifondazione”).

 

Intuizione provvidenziale

1. Il Vaticano II, per quanto in certe sfere se ne voglia attenuare la portata, è senz’altro l’evento più sensazionale, certo più significativo, della Chiesa dei nostri per non dire di tutti i tempi. Un tentativo di riprendere, ora che per la prima volta si potevano analizzare e comprendere le fonti e-vangeliche nella loro vera portata, la testimonianza di Gesù Cristo nella sua genuinità, non più velata o fraintesa dalle interpretazioni dei suoi primi, successivi e ultimi seguaci! C’era voluto tutto il coraggio, per taluni l’“ingenuità” (non per nulla in qualche Paese era chiamato “papa contadino”) di Giovanni XXIII per indirlo e realizzarlo, ma, una volta convocata, la grande ecumene ecclesiale aveva superato le aspettative e prospettive di colui o di coloro che l’avevano voluta. Nella veste di incaricato della S. Sede il futuro pontefice si era trovato a contatto con le tendenze innovatrici serpeggianti all’interno della cristianità e invece di ignorarle, o, peggio, di respingerle, come d’abitudine facevano i dicasteri romani, volle provarsi da papa a riascoltarle insieme ai “venerabili fratelli” di tutto l’orbe cattolico (25.01.1959).

 

Un po’ di “aria fresca”

La sorpresa, l’indignazione, le resistenza, gli ardui preparativi non riuscirono a fermare la decisione presa e l’11 ottobre del 1962 la basilica di San Pietro accoglieva l’assem-blea dei vescovi e arcivescovi di tutto il mondo. Ma questi non erano venuti accompagnati da paggi o cortigiani come a Trento, bensì da “esperti”, cioè da persone bene informate sui progressi del sapere sacro (Scrittura, teologia, spiritualità) e scienze similari (antropologia, etica, socialità). Saranno le forze portanti del Concilio: senza di loro i discorsi dei vescovi sarebbero probabilmente stati solo amene conversazioni, per non dire chiacchiere. Invece la cosiddetta “chie-sa docente” accettò di trovarsi a fianco di quella “pensante”, non per contrapporsi e combatterla com’era il più delle volte accaduto in passato (si pensi all’attività dell’ex Sant’Uf-fizio e della Congregazione per la dottrina della fede), ma per provarsi a leggere, quindi a capire, i “segni” dei nuovi tempi, che a detta del pontefice sembravano vedersi sempre più chiaramente all’orizzonte.

2. Il Concilio si era aperto all’insegna del rinnovamento e dell’“aggiornamento”, e il primo documento ne dava subito la conferma, la Sacrosantum Concilium, che liberalizzava la liturgia, rimuovendo il latino, una lingua morta da quasi un millennio, e riportando l’eucarestia a una esperienza di convivialità tra gli uomini (una “cena” tra veri “amici”) più che di interscambio rituale (“sacrificio”) con Dio (04.12.1963).

Ma i mutamenti più sorprendenti, occorrerebbe dire più sconvolgenti, si registrarono nelle tre Costituzioni degli anni ’64-’65. E furono la Dei Verbum, che accettava la demitizzazione della parola di Dio, ossia riconosceva la legittimità del metodo storico-critico-letterario nell’interpretazione delle sacre Scritture, compresi i vangeli (18.11.1965); quindi la Lumen gentium (21.11.1965) e la Gaudium et spes (07.12.1965), che provavano a rimettere in discussione la stessa natura o identità della Chiesa e il senso della sua vera missione “nel mondo”. Proposte, voci, orientamenti sempre riemergenti nel corso dei secoli e tuttavia sempre rimaste inascoltate, stavano prendendo corpo e forma nell’aula vaticana.

 

Chiesa di “popolo”

3. La Lumen gentium non riusciva ad abbattere il monarchismo imperante, ma otteneva di collocargli - o ricollocargli - a fianco la “collegialità” (alias conciliarismo, sempre guardato con sospetto e diffidenza), a tutti i livelli, centrali (“sinodo dei vescovi”) e periferici (“conferenze” episcopali nazionali e regionali, “consigli” diocesani e persino parrocchiali), ma la novità più inattesa era che si vedeva emergere dall’alveo comunitario un protagonista sino ad allora quasi ignorato (il popolo di Dio) e che invece andava manifestandosi con tutte le sue onorificenze e incombenze, regali, profetiche e sacerdotali (cfr. Es 19,5-6; 1 Pt 2,9-10) e che per di più sembrava propenso a farle valere, come risultava dai movimenti ecclesiali che andavano un po’ ovunque affermandosi.

Una nuova ecclesiologia che sarà subito chiamata “di comunione” in cui tutti i credenti si trovavano alla pari davanti a Dio ed erano egualmente attenti alla sua voce, andava a cimentarsi con quella vigente in cui tutti invece si trovavano alle “dipendenze” di alcuni e alla fine dell’unico supremo gerarca.

La Lg metteva in forse la piramide tradizionale (Dio, il sommo pontefice, i vescovi, i “fedeli”) poiché poneva al primo posto non un uomo, ma Dio stesso e il suo progetto salutare o “mistero” (cap. I) e subito dopo (cap. II) il “popolo” che definiva come “suo” (di Dio), certo per predilezione nei suoi riguardi ma, insieme o soprattutto, anche perché se ne prendeva cura direttamente, gli confidava i suoi segreti e gli affidava i suoi progetti. La novità della Lg è che Dio non ha bisogno di farsi rappresentare da chicchessia, perché non è e non può essere mai assente; se per assurdo lo fosse, tutto, l’uomo e il suo mondo, ripiomberebbero nel nulla.

La comunità credente è tale solo perché si trova in diretta comunione con Dio (“fede”), attenta alle mozioni del suo Spirito, e lo accolgono più sicuramente quelli che sono più vicini a lui (i “santi”) anche se sprovvisti di eventuali divise, distintivi, infule, imposizione di mani, tutti simboli che non cambiano la dignità delle persone e soprattutto non creano, né aumentano, l’amicizia con Dio.

4. La Costituzione (Lg) non faceva che richiamarsi alla proposta originaria di Gesù, che non solo non aveva previsto alcuna forma di organizzazione per il suo “movimento”, ma aveva persino rifiutato il modello familiare (“né padri, né maestri”: Mt 23,7-9) tanto più quello gerarchico quale era presente in Israele (sommo sacerdote, sinedrio, popolo) e nel mondo ellenistico (re o arconte, assemblea, popolo). Aveva infatti categoricamente annunziato: “Tra le nazioni quelli che sono chiamati capi le signoreggiano e i grandi hanno potere su di esse; ma tra voi non sia così; chi vorrà essere grande sia vostro servo; chi vuol essere primo sarà l’ultimo, servo di tutti” (Mc 10,42-44 e paral.).

 

Equivoci che rimangono

5. Ma, nonostante questo severo ammonimento, accadde che in qualche comunità dell’alta Siria, intorno agli anni ’70-’80, alcuni suoi discepoli sentirono il bisogno o la necessità di raccogliere la “moltitudine” dei credenti intorno a qualcuno o ad alcuni provenienti dalla più stretta cerchia dei seguaci di Gesù, “Cefa” e gli “apostoli” (cfr. Mt 10,1-4; 16,18-19; 18,18). È un “ordinamento” tuttavia che Marco e lo stesso Paolo non sembrano ancora ben conoscere, ma ciò nonostante diventa quasi subito dominante, come si vede dall’accenno di Luca (22,32), dalle Pastorali (a Tito e a Timoteo), dalle lettere dell’Apocalisse (cc. 1-2), dall’appen-dice al quarto Vangelo (Gv 21). Cosicché, verso gli ultimi decenni del I secolo, i vangeli registrano due ecclesiologie: una popolare (il termine “democratico” è prematuro) e una gerarchico-monarchica; purtroppo negli sviluppi storici successivi la seconda ha finito per eclissare, quasi cancellare, la prima che tuttavia rimane nelle fonti, ma più sotto un profilo ascetico-spiritualistico che storico-“giuridico”.

Stando così le cose, i padri conciliari si sono preoccupati innanzitutto di restituire al popolo credente il posto d’onore che secondo i profeti Dio gli aveva assegnato, prima, e in un certo senso al di sopra, della gerarchia (v. n.3). Se non che lasciavano a quest’ultima, sebbene declassata, tutti i titoli e i privilegi che aveva accumulato nel tempo, pensando, ma si illudevano, che questa, una volta accortasi della loro illegittimità, vi avrebbe spontaneamente rinunciato.

Ma il miracolo della “conversione” della gerarchia non si è verificato. Anzi, passato il Concilio, tornati alle loro sedi, molti vescovi, ma pian piano tutti, hanno continuato a “governare” come prima, ricuperando il posto primaziale sul popolo di Dio, che nel frattempo era stato ridesignato con un nuovo appellativo (i “laici”: Lg n. 4) estraneo alle fonti vetero e neotestamentarie.

6. Le due ecclesiologie presenti sostanzialmente, anche se subordinatamente, nei vangeli finiscono per ricomparire anche nella Lumen gentium ma sono tra di loro troppo divergenti, contrastanti, per poter ritenere che entrambe provengano egualmente da Cristo. Se è “vera” l’una è difficile che possa esserlo contemporaneamente l’altra.

Se Gesù ha realmente detto “voi siete tutti fratelli”, “tra voi non sia così”, “chi vuol essere primo si ponga all’ultimo posto” - e non può essere messo in dubbio perché è eccezionalmente riportato da tutti i sinottici, e Giovanni, che ha omesso tale testo, ha avuto cura di raccontare la scena della lavanda dei piedi che è come il sacramento della nuova legge, a cui tutti i discepoli dovevano attenersi (“Vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io facciate anche voi”: 13,13-15) - come può poi aver detto, proposto, peggio, imposto a “questi” e a “quegli” di “regnare” ovvero di sovrastare sulla moltitudine dei fratelli?

È vero che i testi petrini ed apostolici sono chiaramente presenti nei vangeli (v. sopra n. 6), ma, a parte che non hanno esattamente il senso che hanno ricevuto in una determinata confessione cristiana (la Chiesa cattolica, che li ha presi a supporto di una “monarchia assoluta”), oggi tutti sanno, studiosi e non, esegeti e meno, che i vangeli non sono cronache e che seppure in molti casi danno notizie vere (quando riferiscono gesti e messaggi troppo originali perché possano provenire dai suoi ripetitori), in molti altri offrono libere reinterpretazioni e rielaborazioni di pastori o teologi della seconda, terza generazione.

Non è certo neanche inverosimile che il pensiero originario di Gesù Cristo, come quello di un profeta o di un maestro, possa essere andato incontro a un’evoluzione, cioè a un adattamento alle nuove situazioni emerse, ma non si può escludere che sia egualmente andato soggetto a qualche involuzione, cioè a un allontanamento (deviazione) dalle intenzioni del primo autore, come appunto secondo gli esperti è avvenuto nei testi in questione. È in tal senso che Loisy, uno dei padri dell’esegesi moderna, asseriva che “Gesù ha annunziato il regno di Dio ma è nata la Chiesa”.

 

“Pace” fatta col “mondo”

7. Ma c’è un altro capitolo dell’ecclesiologia conciliare (Gaudium et spes) che ha fatto e continua a far parlare di sé. Sia perché rimasto inattuato, sia per la sua originalità, per il nuovo rapporto che i credenti sono invitati ad avere verso il mondo, visto da sempre come la sede del male o il regno del Maligno, stando a un’asserzione del Quarto evangelista (Gv 12,31) che tra l’altro fa dire a Gesù “non prego per il mondo” (17,9), mentre, come cantavano gli angeli sulla culla di Betlem, è l’oggetto di tutte le predilezioni divine, della sua “eudochìa” (Lc 2,14).

Il termine (mondo) sembra far pensare alle realtà cosmiche o terrestri, ma abbraccia prima ancora tutti i suoi abitanti, in primo luogo gli uomini, che non sono figli di Belial ma dell’Altissimo, che ha programmato per loro un’esisten-za felice e beata.

L’eden che ha loro prospettato non è andato perduto per colpa di inesistenti progenitori, solo non si è ancora realizzato, ma presto si realizzerà e la terra ricoperta di triboli e spine più che una valle di lacrime diventerà un giardino di delizie.

Il Concilio ricorda alla Chiesa di farsi portatrice non tanto di annunzi di rovine e catastrofi, alla stregua dell’autore dell’Apocalisse, quanto di liete notizie (eu‑anghelion), di prosperità (gaudium) e fauste previsioni (spes).

Il regno di Dio ha senz’altro prospettive ultraterrene, ma comincia da qui, in questo mondo in cui “tutti gli uomini”, non solo alcuni privilegiati (i credenti) (Gs n.2), debbono vedere la fine dei loro travagli fisici e spirituali, quanto prima (“oggi”, annunziava Gesù nella sinagoga di Nazareth; Lc 4,18).

La Gs non stravolge l’orientamento trascendente della fede cristiana ma si prova a ricuperarne la dimensione storica, terrestre, mondana, troppo spesso dimenticata o addirittura riprovata (vedi la “fuga mundi” dei monaci egiziani o i richiami al “deserto” da parte degli attuali programmatori ascetici) mentre dovrebbe essere meglio compresa, caldeggiata, protetta. Le “seduzioni” del mondo infatti non sono i piaceri e le gioie della vita, non sono nemmeno l’eros, bensì le erosioni dell’egoismo, le inalberazioni della vanità e del-l’orgoglio che turbano e distruggono la propria ed altrui serena, equilibrata realizzazione.

La Chiesa, ricorda la Gs, deve saper ritrovare il suo posto “nel mondo” e riscoprire le funzioni, la missione che è tenuta a svolgere. Il mondo, cioè la famiglia umana, è anche un’accolita di benpensanti e di benestanti, ma soprattutto una moltitudine di indigenti, di ciechi, di paralitici che attorniano la piscina miracolosa attendendo il movimento delle acque salutari e chi dia loro un aiuto per raggiungerle.

 

Istituzione anomala: esiste per gli altri

La Chiesa non può accontentarsi di restare a guardare dall’alto gli uomini in mezzo ai quali si trova a vivere o, come i protagonisti della parabola, passare loro accanto con indifferenza (Lc 10,29-37); al contrario deve mettere tutte le sue conoscenze e competenze a loro profitto. In altre parole, la Chiesa dovrebbe sapere, almeno non dimenticare, che essa è stata voluta, costituita non per avere un’affermazione, meno ancora un prestigio tra le altre istituzioni parallele (religiose) o socio-umanitarie (politiche), ma per essere di aiuto alla moltitudine dei bisognosi. “Il suo vero volto - fa notare un esimio autore dei nostri giorni, C. Di Sante - non è quello di essere-per-sé ma essere‑per‑gli altri” (Il rinnovamento liturgico. Problema culturale, Bologna 1978, p. 32. Nelle pp. 15-49 un eccellente commento alle Costituzioni conciliari).

 

Oneri più che onori

8. A una Chiesa autonoma e trionfalistica, per di più con tinte e venature manichee o giansenistiche, il Concilio (Gs) rivolge l’invito a riscoprirne un’altra ben diversa, opposta, non tanto orientata verso se stessa quanto finalizzata al progresso materiale e culturale dell’intera comunità umana. A-bituata a signoreggiare su tutto e su tutti, regnanti e comuni fedeli, fin nell’intimo delle loro coscienze, si ritrova, come ha scultoreamente parafrasato il pontefice Paolo VI, ad essere “l’ancella dell’umanità” (07.12.1965). Non era che una presa di coscienza del suggerimento o comando di Gesù (Mc 10,42-43). In qualunque casa, poi, il “servo” non è colui che dà ordini ma quello che li riceve; la stessa cosa dovrebbe avvenire nella Chiesa se vuol stare alle regole fissate da colui dal quale asserisce di provenire.

Al popolo credente che la Lumen gentium ha onorato con l’appellativo “di Dio”, la Gaudium et spes si premura di far sapere che è pure “sovrano”, cioè che spetta a lui di programmare quanto riguarda la costruzione e la diffusione del regno di Dio in un determinato territorio e spetta pure a lui il compito di “designare” degli “inservienti” tenuti a ricordare alla comunità - che rimane sempre la grande sovrana - gli impegni presi, le decisioni di cui si è fatta carico. E quando questa fosse lenta, sorda o esausta, non serve metterle accanto o sopra dei comandanti severi per rianimarla e farla correre.

9. La “gerarchia” (termine assente nei vangeli) giustifica la propria esistenza e necessità di intervento con il fine o il pretesto di contrastare l’apatia o la sonnolenza della moltitudine, ma non si chiede se questa lentezza non dipenda proprio dalla deresponsabilizzazione in cui (la moltitudine) è stata troppo a lungo, se non da sempre, tenuta. E nel caso in cui questa carenza di impegno dovesse persistere o peggio degenerare, cos’è più evangelico, attendere che torni a prevalere il senso della fraternità e responsabilità o autorizzare subito (ma in base a quale legge?) a mettere in atto misure coercitive che Gesù non solo non ha consigliato (Mt 18,22), ma ha chiaramente deprecato?

D’altra parte è pur sempre vero che i problemi conculcati non sono poi risolti, così come le dissonanze o divergenze comunitarie non si placano con le imposizioni, caso mai con le convinzioni, non però dottrinali ma umanitarie. Infatti l’approccio corretto, benevolo (in una parola la “carità”), non può non convertirsi nell’eventuale interlocutore in una risposta attenta e costruttiva, mentre affermazioni cattedratiche (magistrali o magisteriali) rischiano di suscitare reazioni contrarie, se non di rigetto, poiché urtano orientamenti educativi, opinioni e concezioni a cui in partenza, tanto meno ex-abrupto, a occhi chiusi nessuno si sente disposto a rinunciare.

Certo, a rigore una tale libertà o liberazione sarebbe sempre e a tutti possibile, poiché alla fine una versione non conta forse più dell’altra, poiché tutte sfiorano la Verità ma nessuna può pretendere di identificarla. E, se non ci fossero state le ideologie (filosofiche e teologiche) e le religioni, gli uomini sarebbero vissuti più in pace di quanto sia accaduto.

 

Retromarcia: libertà di coscienza anche per il cattolico

10. Il Concilio ha detto anche qui una parola nuova, determinante, scoprendo e segnalando al credente, in primo luogo al cattolico che ne aveva più bisogno, una libertà (religiosa o di coscienza) non solo mai avuta, ma nemmeno ritenuta possibile, addirittura inimmaginabile, dato il fermo o ferreo dogmatismo in cui da sempre si era trovato interiormente rinchiuso. Non è che il Concilio abbia chiesto o imposto al fedele di abdicare alle sue certezze teologiche, gli ha tuttavia ricordato di poterle ritenere interpretazioni, per di più secondarie, della verità stessa. La quale rimane sempre al di là e al di sopra di qualsiasi formula o formulazione che ha avuto, ha e può avere da parte degli uomini, “profeti” compresi.

Se il relativismo può equipararsi in qualche modo all’in-differentismo, come il razionalismo può diventare sinonimo di ateismo, la relatività e dal suo canto la razionalità sono le uniche strade obbligatorie per poter continuare a vivere in serenità e pace in un mondo globalizzato, multietnico e pluriculturale, al di fuori delle conflittualità (le “lotte di civiltà, le “guerre di religione”) che hanno riempito l’intera storia dell’umanità.

Se pertanto si torna a sbandierare la teoria dei “principi non negoziabili”, non si dà l’impressione che, se non proprio contrari, si è almeno poco inclini al dialogo e alla fine anche allo stesso ecumenismo che a parole viene tanto spesso invocato? In altri termini sembra che si preferisca rimanere chiusi dentro i propri steccati, attenti più a spiare che a capire gli altri, pronti a cogliere più le differenze che le convergenze, provandosi alla fine quasi a restringere, più che ad ampliare, i flebili spiragli di apertura interreligiosa presenti nelle Dichiarazioni conciliari Nostra Aetate (28.10.65) e Dignitatis Humanae (7.12.65).

11. Se queste considerazioni possono in qualche modo rispondere a verità, come si fa a dire (da parte del regnante pontefice e di qualche teologo di curia o di corte) che il Concilio è rimasto sulla linea tradizionale della Chiesa, ossia che è stato un avvenimento di ordinaria amministrazione? Tale affermazione caso mai può valere per i temi non trattati (cristologia, sacramentaria, regime o gendarmeria vaticana, nunziature, inutili quanto dispendiose, ecc. per i quali ci si potrebbe augurare un Vaticano III o un Concilio gerosolimitano II) ma in nessun modo ciò può sminuire la portata del Vaticano II, l’avvenimento più sconvolgente per la Chiesa cattolica nei suoi primi duemila anni di vita.

Le alte sfere vaticane non hanno però voluto comprendere la svolta proposta e per questo neanche si sono adoperate a metterla in atto. Ciò non deve sorprendere: la stessa sorte è toccata al vangelo e al profeta che l’ha annunziato. Nonostante tutto, però, è bene non lasciare spazio a sentimenti di scoraggiamento: Vangelo e Vaticano II rimangono pietre miliari nella storia dell’umanità e contengono i presupposti per cambiarne il corso fino a portarlo a compimento.