Clandestini, quando svanisce la pietà
di Ilvo Diamanti
“la Repubblica” del 26 aprile 2009
Cambiano i tempi. Ma gli immigrati non si fermano. Nonostante governino forze politiche
inflessibili e "cattive": gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto
per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni. Partono in tanti. Ogni giorno.
Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l'Africa
dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di
persone. Persone? Per definirle tali dovremmo «percepirle». Invece non esistono. Sono
«clandestini» quando si mettono in viaggio e quando riescono ad entrare nei paesi di destinazione.
Ma anche quando vengono ammassati nei Cpa. Migranti perenni. Non riescono a trovare una nuova
sistemazione – stabile e riconosciuta – ma non possono neppure tornare indietro.
Come i 140 stranieri raccolti e trasportati dal cargo Pinar. Rimpallati fra l'Italia – che alla fine li ha
accettati – e Malta. Indisponibile. Perché la fuga dall'Africa e dall'Asia, come l'esodo dai paesi
dell'est europeo, spaventa tutti i paesi ricchi. Non solo noi. La vecchia Europa vorrebbe diventare
fortezza. Trasformare il Mediterraneo in un canale inaccessibile. A cui mancano i coccodrilli, ma
non gli squali. Eppure, nonostante la politica della fermezza, la tolleranza-meno-uno, i Cpa e
migliaia di espulsioni. Nonostante tutto: i flussi non si fermano. Gli sbarchi proseguono senza sosta.
Da gennaio ad oggi: oltre seimila. Il doppio rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Che
già aveva segnato il livello più alto della nostra storia di immigrazione. Breve e travolgente. Nel
2008 erano sbarcati sulle nostre coste 37mila stranieri. Quasi il doppio del 2007. Difficile non
nutrire dubbi sulla produttività delle nostre politiche e della nostra politica. Anche se l'attuale
maggioranza di governo ha vinto le elezioni promettendo di fermare gli stranieri. Di bloccare
l'invasione. Con le buone ma soprattutto con le cattive.
Propositi chiari ma, fin qui, inattuati. Semplicemente perché inattuabili. Quando a migliaia
intraprendono il viaggio sulle carrette del mare, stipati come animali. Come i disperati del Pinar.
Dietro alle spalle le storie terribili raccontate da Francesco Viviano, su queste pagine, nei giorni
scorsi. In fuga da persecuzioni, conflitti etnici. Dalla fame. Disposti a tutto. A ogni costo. Come la
ragazza annegata con il suo bimbo in grembo, nelle acque davanti a Malta.
Questa emigrazione è una tragedia senza fine. Che, tuttavia, non ci commuove. Anzi, suscita
perlopiù distacco e ripulsa. Difficile non cogliere la differenza con l'onda emotiva e la solidarietà
sollevate dalla catastrofe in Abruzzo. Ma noi riusciamo a provare pietà e solidarietà solo quando le
tragedie accadono sotto i nostri occhi. Quando i media le illuminano, minuto per minuto, luogo per
luogo, in modo quasi compiaciuto. Quando la politica le accompagna e le segue da vicino. Perché si
tratta della «nostra» gente. Allora ci emozioniamo. Gli «altri», invece, non hanno volto. Le loro
tragedie non hanno quasi mai le aperture dei tigì. Gli sbarchi vengono raccontati come una calamità.
Per noi. E a nessuno, comunque, verrebbe in mente di organizzare un G8 a Lampedusa. Non solo
per ragioni logistiche.
Naturalmente, si tratta di considerazioni che possono apparire «buoniste», fradice di retorica. E con
la retorica non si risolvono i problemi. Non si proteggono le città insicure. I cittadini minacciati
dalla nuova criminalità etnica, dai clandestini che affollano le periferie. D'altronde, in pochi anni
siamo diventati un paese di grande immigrazione. Quasi come la Francia e la Germania. Fino a ieri
eravamo noi, italiani, a disperderci nel mondo, a milioni, per fuggire la miseria. Ora invece ci
sembra che il mondo si stia rovesciando su di noi. E questo mondo è troppo grande per stare dentro
a casa nostra, dentro alla nostra testa. Noi non siamo in grado di controllarlo né di comprenderlo.
Non ci riusciamo noi. Ma non ci riescono, soprattutto, i poteri economici e finanziari, le istituzioni
di governo. In balia dei collassi delle banche e delle borse, delle guerre, del terrorismo, delle
epidemie. La politica. Non riesce a difenderci ma neppure a spiegarci ciò che avviene. E rinuncia a
contrastare le nostre paure. Anzi, complici i media, le enfatizza. Inventa muri e confini che non
esistono. Promette di chiudere i nostri mari, di sbarrare le frontiere. Promette di difenderci, a casa
nostra, dagli stranieri che si insinuano nei nostri quartieri. Ricorrendo a iniziative a bassa efficacia
pratica e a elevato impatto simbolico. Come le ronde. I volontari della sicurezza locale. Dovrebbero
esercitare il controllo sul territorio un tempo affidato alle reti di vicinato, alla vita di quartiere, alla
presenza quotidiana delle persone. Rimpiazzando una società locale che non c'è più. La politica.
Promette di difendere la nostra identità, la nostra religione, la nostra cultura, la nostra cucina. E per
questo combatte contro la costruzione di moschee. Oppure lancia battaglie gastroculturali. Contro i
cibi consumati per strada. Anzitutto e soprattutto: contro il kebab. Insieme alle moschee: icona
dell'islamizzazione presunta del nostro paesaggio e della nostra vita quotidiana.
La politica e le politiche usate come placebo. Per rassicurare senza garantire sicurezza. Per
guadagnare voti e consenso. La Lega, secondo i sondaggi, sembra essere riuscita a superare i
confini del Nord padano e ad espandersi nelle regioni dell'Italia centrale. Tradizionalmente di
sinistra. Ma la retorica della «protezione dal mondo», la costruzione della paura: non riguardano
solo la Lega. E neppure la destra. Perché gli stranieri possono «servire», politicamente e
culturalmente, ma tanto in quanto le distanze fra noi e loro sono visibili e marcate. Tanto in quanto
restano stranieri. Oggi, domani. Sempre. Lontani e diversi. In questo modo ci permettono di
ritrovare noi stessi. Di ricostruire – artificialmente, per opposizione e paura – la nostra identità e la
nostra comunità perduta. A condizione di fingere: che le nostre frontiere immaginarie, i nostri muri
emotivi possano arrestare l'onda degli stranieri. A condizione di non vedere. Diventare ciechi e
cinici. Perdere gli occhi e il cuore.