Crocifisso. No al conflitto dei simboli

Chi lo vuole nelle aule dice che è il fondamento della tradizione europea: ma è davvero così?

di Paolo Flores d’Arcais, da "Il Fatto Quotidiano", 13 novembre 2009

Sono anni che a parole sono tutti laici, anzi “più” laici, da Joseph Ratzinger a Ignazio La Russa, passando per Antonio Socci e Giuliano Ferrara. Basta però che dalla Corte europea dei diritti umani arrivi una sentenza di ovvia e unanime laicità, e i “più laici” si scatenano in uno scomposto finimondo, dove della logica e dei fatti storici si fa indegnamente strame. È perciò evidente che sulla parola “laicità” è in atto un’operazione di neolingua orwelliana, che vuole far dire alle parole l’opposto di quanto significano, piegandole alla volontà manipolatoria del potere.

Partiamo dagli strali recentissimi e bipartisan di politici, prelati e financo intellettuali, contro la sentenza europea sui simboli religiosi (in questo caso il crocifisso) nelle aule scolastiche. E discutiamola nel quadro più ampio dei doveri di una società laica e democratica.

Sotto il profilo storico, in primo luogo. Si è dovuto sentire che il crocefisso è simbolo irrinunciabile dell’identità e della storia d’Italia (Gelmini dixit, ma poi un po’ tutti). A dire il vero, per trasformare l’Italia da “mera espressione geografica”, come diceva il principe Clemente von Metternich, in Patria, è semmai contro la croce dei sanfedisti del cardinale Ruffo, e contro il Papa (che per reprimere la Repubblica romana chiamerà gli zuavi francesi) che verseranno il loro sangue i patrioti del Risorgimento. E l’Unità d’Italia, proclamata nel 1861, verrà considerata realizzata solo con la breccia di Porta Pia, in spregio delle scomuniche e degli anatemi che brandendo la croce la Chiesa comminerà. La nostra Patria nasce anticlericale, questa è la verità sulla “radice” storica. Della triade simbolica che riassume il Risorgimento (Cavour, Mazzini, Garibaldi), si deve al più moderato, moderatissimo, dei tre la formulazione canonica sulla rigida separazione tra Chiesa e Stato. Se proprio un simbolo dell’Italia, cioè della Patria uscita dal Risorgimento, si vuole appendere nelle aule, sarebbe storicamente assai più fondato il compasso dei frammassoni (di allora, non di Licio Gelli) anziché il crocifisso. Dovrebbe bastare il tricolore, perciò. Sarà solo il fascismo che deturperà e insozzerà il valore della parola “Patria”, trasformata in manganello retorico, a imporre il crocifisso come simbolo della religione di Stato, dunque della Chiesa cattolica, negli edifici pubblici. Mentre esaltava le gesta di un Impero – sia ricordato en passant – che su quella croce aveva suppliziato Gesù come infame ribelle.

Se poi allarghiamo l’orizzonte alla radice prima della democrazia liberale, la rivoluzione da cui nascono gli Usa, è con l’imprinting del “muro di separazione” tra religione e politica teorizzato da Jefferson e con l’esempio intransigente dei suoi otto anni di presidenza, che l’Occidente moderno decide il valore irrinunciabile della laicità. Imprinting così radicato che ha funzionato da antidoto lungo due interi secoli, malgrado i reiterati assalti delle chiese (compreso quel “In God we trust” sulle banconote verdi, imposto in epoca maccartista, che è bestemmia vivente, anzi circolante, della commistione tra Dio e Mammona).

Ma il crocifisso è simbolo culturale, si dice, che rimanda all’intera storia europea. Un momento. Il cristianesimo è parte integrante della storia occidentale e delle sue radici, come è ovvio. Esattamente come il giudaismo, la religione dei greci e dei romani (compresi quei “misteri” che solo per il caso della contingenza storica non prevalsero sul cristianesimo), le invasioni dei barbari, il deismo e il teismo del Rinascimento e dell’Illuminismo, le accuse protestanti a Roma-Babilonia, Grande Meretrice e regno di Satana, i roghi degli eretici e le guerre civili in nome di una lettura diversa della Bibbia, il terrore di Robespierre e Saint Just, il Congresso di Vienna, il disincanto fino all’ateismo di Hume, di Feuerbach, di Marx, di Freud. Tutto questo fa parte della storia europea, ma si tratta di fatti che veicolano valori molto spesso incompatibili fra loro. Altra cosa è decidere cosa si sceglie come “nostra” storia, cioè come antecedenti su cui vogliamo fondare la nostra identità. Nel nostro caso, l’identità di un’Europa democratica. Che storicamente nasce dall’Illuminismo e dalla critica contro le religioni istituzionali e poi dal liberalismo e dalle lotte del movimento operaio socialista, e dunque, semmai, da valori cristiani secondo un’interpretazione che la chiesa – che rivendica la Verità sulla Croce – ha bollato sistematicamente con l’anatema.

Spacciare il monopolio del crocifisso nei luoghi pubblici come riconoscimento di un simbolo culturale e universale è più difficile che arrampicarsi sugli specchi. Il teologo Vito Mancuso ci spiega che la croce è il “simbolo del più alto ideale che agli uomini sia possibile abbracciare, cioè quello dell’impegno a favore del bene e della giustizia anche a rischio della perdita della vita fisica”. Evitiamo di fare i sepolcri imbiancati: è davvero il Gesù che vive e muore dalla parte degli ultimi quello che si vuole far “parlare” dalle aule scolastiche e da iscrivere come irrinunciabile nella Costituzone europea? Si dovrebbe allora educare e legiferare in modo draconiano contro le diseguaglianze sociali, poiché i ricchi e di nuovo i ricchi sono l’oggetto costante della maledizione del profeta ebreo itinerante, suppliziato dall’Impero romano per lesa maestà. Non è certo questo Gesù e questo messaggio che si intende imporre come comune identità fondativa, decretando il crocefisso nelle aule scolastiche e di giustizia.

Gesù personifica la lotta per la giustizia solo per alcuni, anche non credenti (direi: più spesso non credenti). Ma a chi vede nel Gesù crocifisso il simbolo della inenarrabile sofferenza degli ultimi e dell’impegno doveroso per il loro riscatto, non viene certamente in mente di imporlo, questo simbolo. Sa bene che, imposto, avrebbe già mutato natura, sarebbe diventato strumento di nuova oppressione. Come avvenuto storicamente. E non solo con le Crociate o le vendite delle indulgenze o gli auto dafé della Santa Inquisizione, ma anche al giorno d’oggi, quando in nome della croce si vuole imporre la tortura al malato terminale che implora di abbreviarla o impedire la pillola Ru486 alla ragazza che ha dolorosamente deciso di non voler ancora essere madre. È ineccepibile quanto ricordato da Dario Fo: “In nome di quel ‘segno’ si sono commessi i crimini più efferati. E si commettono”.

Affrontiamo perciò la questione sotto il profilo logico e democratico, l’unico in fondo decisivo. In una democrazia liberale tutti i cittadini hanno pari dignità, quale che sia sesso, razza e religione, come recita ogni Costituzione che ambisca alla qualifica di democratica. Nessuna religione può essere discriminata, nessuna religione può essere privilegiata. A scuola, ma il discorso vale per ogni altro luogo pubblico, e massimamente se istituzionale (tribunali, assemblee elettive, uffici amministrativi). Luogo pubblico significa che appartiene a tutti, collettivamente e singolarmente, non alla sola maggioranza (che in una democrazia è sempre la maggioranza del momento, che può essere rovesciata alle elezioni successive). Ora, è un dato inconfutabile che sotto il profilo religioso le nostre sono società definitivamente pluraliste, e in un duplice (anzi triplice) senso. Perché vi sono più fedi religiose, non solo diverse ma talvolta aspramente conflittuali (in nome della croce come identità e “radice” un alto esponente della Lega ha portato un maiale ad orinare dove doveva sorgere una moschea, per dire). Perché vi sono numerosissimi cittadini non credenti, atei e agnostici delle più diverse tendenze. Perché infine anche coloro che verbalmente condividono la stessa fede, per esempio nel Figlio di Dio crocifisso e risorto, ne danno interpretazioni dissonanti fino agli antipodi (non solo cristiani valdesi contro cattolici, ma Papa e cardinali della Chiesa gerarchica contro teologi alla Küng e parroci “di strada”).

Ora, perché un luogo sia pubblico, cioè di tutti, cioè senza privilegio e senza discriminazioni per nessuno (neppure di uno solo, perché la democrazia liberale si giudica da come tutela le minoranze, le maggioranze si tutelano da sé), si danno esclusivamente due possibilità: o sono ammessi tutti i simboli o si rinuncia a qualsiasi simbolo. La prima, tecnicamente impraticabile, non sarebbe comunque sponsorizzata dai “più laici” che sono insorti a suon di menzogne e di insulti contro la sentenza di Strasburgo (“una stronzata”, secondo la pensosa riflessione del principe dei giuristi, Umberto Bossi). Quella del crocifisso è una presenza “che non impone nulla ma si espone soltanto”, ha minimizzato il cardinal Bagnasco. Ma anche quella di Buddha e magari di Che Guevara. Non basterebbe, infatti, per scongiurare discriminazioni, offrire le pareti ai simboli di tutte le religioni, bisognerebbe garantire analoga possibilità ai simboli di tutte le miscredenze atee e agnostiche. Resta perciò la seconda.