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I critici di Fini ignorano la Storia

di Mario Pirani

“la Repubblica” del 29 dicembre 2008

Ho trovato abbastanza spudorate le polemiche contro Gianfranco Fini per la chiamata di correo,

limpida e coraggiosa, da lui avanzata in occasione del 70° anniversario delle leggi razziali che,

come ha ricordato il presidente della Camera, se bollarono di ignominia il regime fascista, non

assolsero certamente il silenzio della stragrande maggioranza dell'opinione pubblica, né tanto meno

della Chiesa cattolica. Torno sull'argomento perché una rassegna stampa conclusiva mi ha indotto a

riflettere sugli automatismi di certe prese di posizione, spiegabili in base ai calcoli politici attuali ma

non certo preoccupate dalla verifica della realtà storica.

Quanto al primo aspetto, è pur vero che molti italiani non nutrivano particolari antipatie per gli

ebrei e individualmente lo manifestarono. Resta, però, l'assenza di ogni dissonanza collettiva,

mentre fu evidente la caccia ai posti lasciati liberi dagli ebrei nelle università, nelle scuole, negli

ospedali, nell'amministrazione pubblica, nell'esercito, nelle accademie, nei giornali, negli istituti di

cultura, nelle assicurazioni, nelle banche, negli studi professionali, nelle case editrici a cui nessuno

dei prescelti si sottrasse.

Quanto all'atteggiamento della Chiesa torno a premettere che il comportamento di tanti presuli e di

semplici sacerdoti, dal 1938 fino al '43-'45, fornì la prova che cominciava a prevalere lo spirito di

solidarietà sull'intolleranza dei secolari anatemi contro i «perfidi giudei». Di questa svolta conservo

qualche personale memoria. Ciò non cancella il valore della dichiarazione, ricordata da Luigi

Accattoli sul Corriere, che il segretario della Cei per l'ecumenismo, l'arcivescovo Giuseppe

Chiaretti, rivolse dieci anni orsono alla Comunità ebraica, rievocando «la pagina oscura della storia

religiosa durante la quale la comunità ecclesiale, anche per lunga acritica coltivazione di

«interpretazioni erronee e ingiuste della Scrittura» (Giovanni Paolo II), non seppe esprimere energie

capaci di denunciare e contrastare con la necessaria forza e tempestività l'iniquità che vi colpiva».

Per parte mia voglio citare in proposito un testo di accertata obiettività dello storico cattolico,

Renato Moro, su "La Chiesa e lo sterminio degli ebrei" (Il Mulino 2002) in cui ricostruisce, tra

l'altro, i contrasti che divisero la Curia al momento delle leggi razziali, tanto che un'allocuzione di

Pio XI a un gruppo di pellegrini belgi in cui papa Ratti affermava verbalmente: «L'antisemitismo è

inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti», non venne pubblicata dall'Osservatore

Romano, mentre, al contempo, la diplomazia vaticana, diretta dal cardinal Pacelli, siglava un

accordo col regime in base al quale, preso atto che nei confronti degli ebrei il governo italiano

intendeva applicare «onesti criteri discriminatori», si manifestava la opportunità che la stampa

cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo si astenessero «dal trattare in pubblico questo

argomento». Il papa, tuttavia, non parve fermarsi e il professor Moro analizza la complessa vicenda

della preparazione dell'enciclica Humani Generis Unitas rivolta alla condanna del nazismo e

dell'antisemitismo razziale. Il testo venne completato, tradotto in latino e consegnato, perché lo

sottoponesse al pontefice, al generale dei Gesuiti, padre Lédochowski, ma questi assunse una linea

dilatoria, convinto che il pericolo vero per il cattolicesimo fosse il comunismo e non Hitler e che

occorresse evitare l'acuirsi di eventuali dissidi tra la Chiesa e le potenze dell'Asse.

Il Papa fece allora inviare dal sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Tardini, una dura nota al

generale dei Gesuiti e questi dovette cedere. L'Enciclica giunse in Vaticano il 21 gennaio e il papa

prese ad esaminarla nei giorni successivi. Troppo tardi. Il documento fu trovato sul suo tavolo al

momento della morte, nella notte tra il 9 e il 10 febbraio del 1939. A Pio XI successe il cardinale

Pacelli, accolto da molte speranze che andarono presto deluse. Pio XII, infatti, reputò dannoso, alla

vigilia di un conflitto ormai certo, il "rigore" dell'enciclica del suo predecessore e la fece archiviare.

Inviò, invece, una lettera a Hitler in cui gli esprimeva la speranza in rapporti migliori fra le due

parti. Uno dei primi atti del pontificato fu poi la riconciliazione con l'Action Francaise, movimento

cattolico dell'estrema destra antiebraica francese, condannato da papa Ratti. Una erronea e

catastrofica visione diplomatica prevalse in quell'epoca sull'afflato ecumenico che il mondo

attendeva. Come dar torto a Fini?