L’UMANITÀ DI DIO / 1

Gesù ha guarito, non resuscitato

  Mauro Pedrazzoli

da "il foglio" mensile di alcuni cristiani torinesi n° 364 - settembre 2009

Utilizzando il metodo storico-critico (in particolare il commentario di R. Pesch al Vangelo di Marco e quello di H. Schürmann per Luca, entrambi della gloriosa collana biblica della Paideia), ci proponiamo di smontare l’affermazione classica secondo cui i miracoli di Gesù testimonierebbero e proverebbero la super-divinità di stampo tradizionale, in particolare l’onnipotenza sua e del Padre.

Innanzitutto di quali miracoli si tratta? Le categorie sono tre: 1) guarigioni, 2) miracoli della natura, 3) resurrezioni. Le guarigioni (1ª categoria) risultano storiche, e sosterremo la tesi che siano avvenute con procedimento del tutto naturale simile all’ipnosi (trattata nel prossimo articolo), anche se poi sono state quasi subito “miracolizzate”, com’era normale e tipico nel contesto dell’epoca (ma non solo, perché tale visione mitica perdura ancor oggi a Lourdes e nei processi di canonizzazione dei Santi).

Abbiamo già chiarito più volte, d’accordo con la maggioranza degli esegeti, che i cosiddetti miracoli della natura (tempesta sedata, camminare sulle acque, moltiplicazione dei pani, Cana ecc.) sono ricostruzioni simboliche con un profondo significato, ma non hanno nulla di storico (2ª categoria dei presunti miracoli). Rimane la terza categoria, quella delle (solo) tre resurrezioni attribuite a Gesù: figlia di Giairo, Lazzaro, e il giovinetto di Naim. Sono stranamente ridotte all’osso; se ci fosse stata una base storica ben più solida, una cosa così portentosa come la risurrezione di un morto avrebbe a dir poco invaso i vangeli con attestazioni multiple, come appunto è avvenuto con le guarigioni.

 

Il ritorno del profeta Elia

 

Ricordiamo che allora guarigioni e resurrezioni potevano essere riunite sotto il concetto di “terapia”, poiché la morte è il caso estremo di una malattia (Pesch 470); e che il confine tra vita e morte non era necessariamente quello attuale. Sfumano le une nelle altre, come il caso di Elia in 1Re 17,17-24, che è il passo di riferimento per tutti gli autori neotestamentari, in particolare per il racconto lucano di Naim: già in Elia non è chiaro se il figlio della vedova sia già morto o meno. Nel v. 17 si dice: «la sua malattia era molto grave, tanto che rimase senza respiro (pneuma nei LXX)»; se confrontato col susseguente v. 20 «Signore forse farai del male a questa vedova tanto da farle morire il figlio?», se ne deduce che non era ancora morto, anche se si afferma subito dopo che l’anima (psyché nei LXX) del fanciullo tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. Il verbo (epistrefo nei LXX, lo stesso di Lc 8,55 per la figlia di Giairo) significa sì il ritorno-rientro dell’anima-vita-spirito, ma può essere inteso anche nel senso del nostro ritornare-rientrare in se stessi, quindi svegliarsi da uno stato di incoscienza-coma.

Cominciamo dall’unico evento che gode della triplice attestazione sinottica (Mc 5,21-43 e par.), ossia la resurrezione della figlia di uno dei capi della sinagoga, Giairo, il cui nome è già una promessa: esso significa in ebraico «Dio risusciterà» (Pesch 474). Lo sfondo teologico è chiaro: dato che si attendeva un rifiorire della profezia per i tempi messianici, quasi un ritornare dal cielo dello stesso Elia, ciò è appunto avvenuto in Gesù di Nazareth. Praticamente tutti gli esegeti (ad es. Pesch 467 e 492) sono concordi nel rilevare chiare tracce di stratificazione: un originario racconto di guarigione-rianimazione di una moribonda (riscontrabile nella cucitura di Mc 22-24a.38a.40c.41-42), di cui si invoca chiaramente non la resurrezione bensì il risanamento, è stato trasformato in resurrezione con l’inserimento del v.35; solo a posteriori arriva la notizia che la fanciulla è morta, per cui non è più il caso di disturbare il maestro (sottinteso: il maestro può guarire ma non resuscitare). Ne sono una spia due varianti-aggiunte in Mc: «…prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui [che erano a conoscenza del fatto che era morta], ed entrò dov’era [sdraiata] la bambina». Incredibilmente non tutti sanno che era morta; la notizia, molto imbarazzante, testimonia la storia tormentata del testo, con alcune difficoltà e stranezze: ad es. il lamento funebre comincia troppo presto, prima del ritorno del padrone di casa (la trasformazione in resurrezione non è perfettamente riuscita).

 

La bambina e Lazzaro dormono

 

Ma è la frase centrale che è macroscopica («la bambina non è morta, ma dorme»), ed ha sempre creato notevoli difficoltà all’esegesi in passato per andarne a precisare il senso metaforico od eufemistico. Ma tutti i problemi spariscono se viene intesa in maniera lineare e scorrevole nel suo significato letterale: la fanciulla non è morta ma dorme, ossia in termini moderni si trova in una condizione d’incoscienza, insensibilità, coma. Nello strato-livello più antico abbiamo quindi una narrazione di guarigione; una stratificazione, per chi ha occhi per vedere, di un’evidenza solare!

La stessa cosa succede con Lazzaro; per ragioni di spazio rimandiamo a quanto già ampiamente trattato nel n. 292 del 2002, Lazzaro: miracolo o parabola? (reperibile nel vecchio sito del “Foglio”, www.ilfoglio.org). In Gv 11,11s abbiamo il duplex della bambina dormiente di Giairo: «Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato, ma io vado a svegliarlo». E i discepoli: «Se si è addormentato, guarirà», nella scia della relazione atavica fra il sonno e la malattia (dimostrata oggi scientificamente dal fatto che il torpore e la sonnolenza favoriscono la reazione del sistema immunitario, di cui il sintomo più evidente è la febbre come nella banale influenza).

Segue l’inserzione redazionale di 11,13ss, ultima e finale («Ma Gesù parlava della morte di lui…»), che trasforma l’originaria guarigione (nei vv. iniziali ben 5 volte si afferma la malattia di Lazzaro!) in un successivo racconto di resurrezione elaborato dalle tradizioni sottostanti al quarto vangelo (che fanno di Lazzaro il fratello di Marta e Maria). L’unzione di Betania, che in Marco e Matteo avviene a casa di Simone il lebbroso (presunto guarito) per opera di una generica e innominata donna, qui avviene subito dopo nel cap.12 (sì a Betania, ma senza precisare né la casa né chi offre la cena) ad opera di Maria con Lazzaro redivivo, definito semplicemente “uno dei commensali” (più precisamente «uno del numero di quelli che sedevano a mensa con Lui»): quale contorsione per evitare di qualificarlo come possibile “padrone di casa”, lasciando la cosa nel vago per non andare troppo in rotta di collisione coi sinottici! Qui la trasformazione in resurrezione è ancor meno riuscita che nel caso di Giairo.

Con un’operazione di alta fantasia, fervida sceneggiatura e profonda teologia, la tradizione di Simone il lebbroso viene collegata con la tradizione delle due sorelle, e prosegue con la storicizzazione della parabola lucana del ricco epulone (e del povero Lazzaro dalle piaghe tipo-lebbra), in cui si connette un possibile ritorno dai morti col nome di Lazzaro. L’originaria guarigione-rianimazione di Simone-Lazzaro (l’unico dato che può essere storico; due nomi per la stessa persona) viene trasformata nella celeberrima resurrezione, su cui pesa il totale silenzio dei sinottici.

 

L’enigma lucano: Naim

Abbiamo lasciato volutamente per ultimo il passo certamente più ostico, ossia la resurrezione del figlio della vedova di Naim (alla latina) o Nain (alla greca), anch’essa  posta subito dopo una guarigione (quella del servo del centurione a Cafarnao). Tuttavia Lc 7,11-17 è senza paralleli, non del Proto-Luca per dirla con Boismard, materiale esclusivo del Luca II (secondo E. Hirsch, Frügeschichte des Evangeliums [Protostoria del vangelo], Tubinga 1941, vol. II, 197ss), senza nomi, con l’indicazione solo geografica di una città semisconosciuta, altrimenti mai nominata nella Bibbia, dall’ubicazione incerta, all’incirca in Galilea. Mentre Gesù si sta muovendo a Nord, in Galilea, dalle parti di Cafarnao, l’autore nella conclusione sembra ritenere che Naim sia in Giudea (a Sud): «La sua fama si diffuse in tutta la Giudea e [in tutta la regione circostante]». È vero che Giudea può essere una sineddoche per indicare tutta la Palestina (includendo quindi pure la Galilea), ma le ultime parole possono anche essere l’aggiunta di un redattore per ovviare alla svista dell’autore che pare non sapere dov’è Naim (anche la città odierna dista da Cafarnao ben più di un giorno di cammino) o comunque sembra non conoscere la Palestina!

Il riferimento principale è sicuramente Elia, trattandosi in entrambi i casi di figlio unico (esplicitamente in Luca, implicitamente in 1Re) di madre vedova. «Un grande profeta è sorto in mezzo a noi e Dio ha visitato il suo popolo [a fin di bene]» (Lc 7,16, praticamente la stessa espressione del cantico di Zaccaria nei vangeli dell’infanzia, guarda caso anch’essi opera del Luca II, posteriore, intermedio o semi-finale), ossia l’attività salvifica del grande profeta, da Elia alla sua “reincarnazione” in Gesù per gli ultimi tempi. Per l’escatologia biblica di stampo temporale è il massimo che si possa dire; ma è già insufficiente per l’ellenista Luca (intendendo qui l’autore veramente finale), che nel suo inserimento del commovente v.13 immette un subitaneo «Il Signore» (Kurios), per chiarire che Gesù non è solo un grande profeta. Non sono esclusi tuttavia altri paralleli come quello con Filostrato (Schürmann 651) relativo ad Apollonio di Tiana ed alla sua sposa (apparentemente) morta il giorno stesso delle nozze; cosa non impossibile, dato l’uso palestinese di portare i defunti al sepolcro il tardo pomeriggio/sera (Schürmann 644) del giorno stesso del decesso senza aspettare. Il suddetto Hirsch, enfant terrible dell’esegesi, definisce seccamente leggende sia Naim che Lazzaro; il racconto viene comunque presentato come proveniente da un vago e indefinito luogo lontano (quindi non verificabile).

Sosteniamo la tesi che Gesù non abbia mai resuscitato nessuno dalla morte come l’intendiamo noi, ossia quella cerebrale, la morte di tutto il cervello o del cervello come un tutto. Storicamente Gesù ha solo guarito (rianimato o risvegliato); e tali eventi non ebbero nulla di miracoloso, di miracolistico nel senso tradizionale. Gesù ha operato, con grande naturalezza, in un modo simile (molto simile, se non addirittura identico) all’ipnosi moderna, un fenomeno che comunque esiste da sempre in natura (ad es. volpi e serpenti) e tra gli uomini. Relativamente all’ipnosi possiamo anticipare quanto segue: essa si rivela efficace stimolando il sistema immunitario (che può mandare certe malattie in remissione), agisce sul sistema nervoso centrale e periferico (sto pensando ad es. ai paralitici del tempo di Gesù), può guarire lo sdoppiamento di personalità (gli “indemoniati” del passato), e risulta benefica per gli stadi (più leggeri) del coma.

Smontando e scardinando quindi tutto l’impianto classico, e riconoscendo a chiare lettere come l’annuncio kerigmatico e teologico della salvezza portata e operata da Gesù, nel suo genere letterario narrativo fortemente simbolico, abbia fatto ricorso a volte a tratti leggendari e favolistici (tirare in ballo la fede per negare le leggende non è intellettualmente onesto), abbiamo posto le basi per una trattazione nuova e diversa dell’umanità di Dio, o se vogliamo della “divinità” di Gesù, ai fini di un annuncio evangelico che parli seriamente all’uomo del XXI secolo.

(continua)