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In difesa dei clochard lasciati al gelo di notte

di Gian Antonio Stella

in “Corriere della Sera” del 9 gennaio 2009

«Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove

posare il capo», spiega Gesù nel Vangelo di Matteo. Eppure non passa giorno nel nostro (sedicente)

cattolicissimo Paese senza che tanti (sedicenti) cattolici con la bocca piena di parole bellicose in

nome delle tradizioni cattoliche mostrino un quotidiano disprezzo verso chi «non ha dove posare il

capo». Un esempio? L'altolà della polizia ai volontari che portavano tè caldo ai clochard rifugiati

nella stazione di Mestre: «Non avete l'autorizzazione». Ferocia burocratica. Degno cesello

all'ottusa resistenza opposta dalla società Grandi Stazioni al Prefetto che in questi giorni di neve e

gelo, segnati dalla morte di un clochard a Vicenza, ha dovuto fare la faccia dura per ottenere che gli

androni delle due stazioni veneziane non fossero più chiusi e sbarrati dall'una di notte alle cinque di

mattina.

Quello della città serenissima, dove la Regione ha drasticamente tagliato negli ultimi due anni gli

aiuti ai senzatetto (ai quali destina un quarto della somma stanziata per le feste di compleanno della

Repubblica del Leon) è però soltanto l'ultimo di una catena di episodi che marcano una continua e

progressiva indifferenza, se non proprio insofferenza, nei confronti degli «ultimi tra gli ultimi».

Basti ricordare la morte di «Babu» sotto i portici del Teatro Carlo Felice di Genova dopo la

sbrigativa operazione di «pulizia» (o «polizia»?) con la quale alla vigilia di Natale erano state

buttate via le coperte «sporche» regalate ai senzatetto dalla Caritas. O la bravata criminale dei

quattro teppisti riminesi che hanno dato fuoco a un clochard «per noia». O ancora la motivazione

surreale della multa di 160 euro data a fine dicembre da certi poliziotti fiorentini a poveracci che

passavano la notte all'addiaccio: «Dormiva in modo palesemente indecente».

«Il decoro! Il decoro!». Questa è l'obiezione che si leva. La stessa che ha spinto il Comune di

Verona, guidato da Flavio Tosi, a pretendere che la carta d'identità dei «barboni» venisse cambiata.

Prima, alla voce «indirizzo », c'era scritto: «Via dell'Accoglienza ». Un piccolo eufemismo, un po'

ingenuo, per non marchiare il titolare del documento. Adesso no: «Senza indirizzo ». Per carità:

ineccepibile. Però, «dietro», c'è tutta una filosofia. Sempre più tesa a tenere ben separati «noi» e

«loro».

Sempre più allergica a chi «rovina» l'immagine delle città. Sempre più sbuffante verso gli

emarginati. Fino a spingere tempo fa l'allora sindaco di Vicenza Enrico Hullweck a vietare

l'accattonaggio ai medicanti affetti da «deformità ributtanti». Una definizione che, al di là delle

colpe di certi truffatori (da colpire: ovvio), suonava oscena e offensiva per ogni disabile.

Eppure, quei «barboni» che oggi danno tanto fastidio a una società spesso indecente ma ringhiosa

custode del feticcio della «decenza», sono una parte della nostra vita. Da sempre. Della vita

religiosa, come ricorda la scena di San Francesco che dona il mantello a un povero nel ciclo di

affreschi di Assisi attribuiti a Giotto. Della vita musicale, come ci rammentano le storie del

suonatore di organetto che cammina scalzo nella neve, ne Il viaggio d'inverno di Franz Schubert,

senza incontrare chi gli metta un centesimo nel cappello oppure della Frugola che ne Il tabarro di

Giacomo Puccini, è «perennemente intenta a rovistare tra i rifiuti».

Fanno parte della nostra vita letteraria, dal barbone Micawber nel David Copperfield di Charles

Dickens all'Andreas Kartack de La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth fino a Il segreto di

Joe Gould, il brillante intellettuale laureato ad Harvard che aveva deciso di vivere da clochard per

scoprire l'essenza dell'uomo «tra gli eccentrici, gli spostati, i tubercolotici, i falliti, le promesse

mancate, le eterne nullità» e insomma tutti quelli senza casa: «gli unici tra i quali mi sono sempre

sentito a casa». Per non dire del cinema, dall'irresistibile Charlot il vagabondo al tenerissimo

Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, da Archimède le clochard con Jean Gabin al Bodou salvato

dalle acque di Jean Renoir fino a La ricerca della felicità, di Gabriele Muccino, benedetto da

trionfali successi al botteghino. Prova provata di come in tanti riusciamo a palpitare e commuoverci

e fare la lacrimuccia per le sventure di Copperfield o di Will Smith, costretto dalla corte a vivere

come un barbone. E usciti dal cinema scansano l'ubriacone a terra sul marciapiede: «Dio, quanto

puzza! ». Eppure, le cronache di questi anni ci hanno insegnato a conoscere un po' di più, i nostri

«santi bevitori». Finiti spesso sotto i ponti, dicono i dossier, magari solo perché lo Stato, dopo aver

abolito l'orrore dei manicomi, si è dimenticato di trovare delle alternative decenti per coloro che non

ce la fanno ad affrontare da soli l'esistenza e non hanno una famiglia in grado di farsi carico del

fardello. Oppure perché travolti da rovesci della vita. O sconvolti dal tradimento delle persone in

cui credevano. O schiacciati da un dolore troppo grande.

Persone come Luigi Pirandello, che aveva capelli lunghi e barba, era omonimo dello scrittore di cui

il padre era cugino, aveva studiato, parlava inglese e francese ma girava nel centro di Roma

spingendo un carretto dove raccoglieva cartoni. O Filippo Odescalchi, figlio di don Alessandro

Maria Baldassarre, principe del Sacro Romano Impero, discendente di papa Innocenzo XI, che

abbandonò all'inizio degli Ottanta il palazzo di famiglia in piazza Santi Apostoli per andare ad

abitare sotto il colonnato di Palazzo Massimo insieme con una donna e un barbone che indossava

sempre il frac e il papillon, si presentava come «Ele D'Artagnan, attore cinematografico, figlio del

grande Toscanini» e chiedeva a tutti un appuntamento con Federico Fellini: «Deve darmi una buona

parte nel prossimo film perché poi ho deciso che mi ritiro».

Persone come Eugenia Bobbo, che in gioventù era stata una bellissima ragazza di Chioggia e aveva

fatto perdere la testa a un erede di José Echegaray y Eizaguirre, matematico, drammaturgo, politico,

ministro spagnolo, insignito nel 1904 del Nobel per la letteratura. Rimasta vedova, si era lasciata

andare. Quando morì, i giornali scrissero che «per trent'anni aveva vissuto da barbona sotto i portici

di palazzo Ducale, tra una panchina di marmo e la quinta finestra al pianterreno», che «parlava

quattro o cinque lingue, aveva una cultura impressionante e in trent'anni non aveva mai chiesto

l'elemosina» e viveva delle premure di un po' di nobildonne, prima fra tutte la spagnola Duchessa di

Alba e raccontava: «A teatro, quand'ero giovane, tutti i binocoli erano puntati su di me».

Persone che, per i motivi più diversi, si lasciano alle spalle tutto. E alle quali, oltre a qualche coperta

in questi giorni di gelo, una cosa almeno la dobbiamo: un po' di rispetto.