Küng: «Capire per credere»

di Hans Küng

“Il Sole-24 Ore” del 15 novembre 2009

La mia spiritualità ha sempre avuto a che fare più con la razionalità che con la sensibilità. Non ho mai voluto semplicemente "credere", ma anche capire. Come teologo mi sono sempre ritenuto anche filosofo, ho studiato filosofia e l'ho praticata. L'avversione contro questa materia, osservabile di continuo da Martin Lutero in poi, non mi appartiene. D'altra parte non mi è mai stato chiaro perché i filosofi del XX e XXI secolo non si sono più voluti porre la questione della "metafisica", consegnando ai teologi l'amministrazione di questa grande eredità della filosofia occidentale.

Forse che con la mia teologia io riesca a porre rimedio a quella dimenticanza di Dio sopravvenuta nella filosofia e a quella dimenticanza della filosofia avvenuta nella teologia? In ogni caso la mia teologia non dovrebbe essere una scienza segreta per chi è già credente, che si trincera nelle questioni cruciali dietro ai misteri, come lo è stata quella creata dai teologi nel corso di una problematica storia dei dogmi. Piuttosto essa dovrebbe essere comprensibile, condivisibile e attendibile, così da avvicinare anche i non credenti all'unico grande mistero della realtà, quello a cui noi diamo il nome di "Dio".

Non posso e non voglio spegnere la mia ragione nelle questioni di fede. Tutto quanto è assurdo; oscuro, infantile, zotico, reazionario, lo sento estraneo da me, così come quell'isteria massificata o addirittura mondiale che si verifica nel caso di un tragico incidente a una bella principessa, nella morte inaspettata di una popstar avvolta dagli scandali o nella morte pubblica e diffusa mediaticamente di un Papa.

Ma anche una ragionevolezza assolutizzata, un razionalismo ideologico possono essere una superstizione, similmente al dogmatismo teologico. In ogni caso ho poca voglia sia di discutere con i razionalisti irrigiditi che con i dogmatici immobili. Più di una volta ho constatato che nella polemica entrambi si dimostrano incapaci anche solo di riportare in maniera corretta le mie opinioni. In quelle circostanze la loro ratio viene offuscata dalla passio.

Naturalmente anch'io, come ogni essere umano, non sono fatto solo di ragione e ragionevolezza, bensì anche di sentire e volere, di indole e fantasia, di emozioni e passioni. Mi sforzo volutamente di conseguire una visione complessiva delle cose. Ho imparato a pensare in maniera metodica e chiara, quello che si chiama esprit de géometrie secondo lo spirito di Cartesio. Nel contempo tuttavia ho tentato di acquisire un conoscere, un sentire e un percepire che sia completo e intuitivo, secondo l'esprit de finesse dell'antipode di Cartesio, ovvero l'eccellente matematico Blaise Pascal.

Al ginnasio di Lucerna noi studenti talvolta prendevamo in giro il nostro bravissimo professore di storia dell'arte che durante lo studio di un'opera, quando eravamo di fronte a qualcosa di non quantificabile, bensì di estetico, ovvero alla bellezza, diceva sfregando i pollici con gli indici e i medi: «Dovete sentirla, intuirla!». Ma aveva ragione. Ci sono così tanti fenomeni specificamente umani come l'arte, la musica, lo humor, il riso e certo il dolore, l'amore, la fede e la speranza che non si lasciano cogliere in maniera critico-razionale nelle loro varie dimensioni bensì che è possibile avvertire solamente nella loro pienezza. Anche la nuova ricerca sul cervello è in grado con i suoi grandi tomografi computerizzati di spiegare il funzionamento dei neuroni, ma non di scoprire i contenuti dei nostri pensieri e delle nostre emozioni.

Già quando ero un giovane professore trovavo affascinante avere uno scambio con i grandi scienziati delle altre discipline. Allora non parlavo di «interdisciplinarità», ma la esercitavo ovunque potessi. Naturalmente ritenevo fondamentale un atteggiamento di rispetto, non verso i saccenti accademici, quanto verso i veri grandi conoscitori della materia. Un rispetto di fronte al loro immenso sapere, ai loro risultati dotati di fondamento, alla loro diversa metodologia e ai loro giudizi obiettivi. Anche nella teologia ho avuto a che fare con filosofi, giuristi, storici e medici, poi in maniera sempre maggiore con psicologi, sociologi e politologi. Soprattutto ho sempre voluto prendere sul serio l'indipendenza e l'autonomia delle scienze naturali matematico-sperimentali; mi sono impegnato affinché non venissero poste in dubbio da nessun teologo o religioso che si richiamasse a un'autorità superiore (Dio, la Bibbia, la Chiesa, il Papa).

Parimenti ho sempre ritenuto importante che se si dovessero trattare le questioni delle scienze naturali secondo il loro metodo e stile, allora d'altro canto sarebbe doveroso che anche le questioni della psiche umana e della società, così come del diritto, della politica e della ricerca storiografica, e tanto più quelle dell'estetica, della morale e della religione, venissero trattate secondo il loro metodo e stile. In maniera del tutto legittima oggigiorno anche nelle scienze dello spirito noi ci occupiamo sempre più dell'analisi dei fenomeni, delle operazioni, dei processi e delle strutture. Ma facendo ciò non dobbiamo dimenticare che ci sono questioni legittime in ambito scientifico che attengono al senso primo e ultimo delle cose, ai valori, agli ideali, alle norme e ai comportamenti. Esse richiedono una risposta. Come filosofo e teologo non posso accontentarmi della problematicità superficiale del nostro mondo secolarizzato e ridotto solamente a razionalità e funzionalità, bensì debbo cercare di penetrare nella sua dimensione più profonda. Come si può altrimenti trovare una risposta alla domanda sul fondamento della vita?

(Traduzione di Alessandro Melazzini

da www.finesettimana.org