Secondo una celebre frase, i vangeli sono
dei racconti della Passione con una lunga introduzione. Ciò significa che sono
nati come Passio, a cui poi è stato
aggiunto e premesso tutto il resto. Diversamente da quanto li precede, hanno una
sequenza "cronologica" abbastanza precisa, anche se non sono una
biografia ed un resoconto storico in senso moderno. Ciò non toglie che ci
muoviamo nell’ambito di una narrazione di fatti, anche se gli autori si
concedono delle pause, degli intermezzi, degli sprazzi simbolici e teologici. Il
più vistoso è quello narrato da
Matteo 27,52-53: «sùbito dopo la morte di Gesù si aprirono i sepolcri e molti
corpi di santi morti resuscitarono, e dopo (!!) la sua resurrezione entrarono
nella città santa e apparvero a molti».
Pilato
filosofo e Giuda suicida?
Una scena meno vistosa
(ideata dal quarto evangelista) è che il sanguinario Pilato cerchi di
introdurre una discussione filosofica su che cosa sia la verità (Gv 18,37-38).
Inoltre il buio su tutta la terra può essere causato solamente da un’eclisse
di sole (come solo Luca dice esplicitamente): ma essendo la Pasqua per
definizione connessa con la luna piena (la prima della primavera), in tale fase
lunare (con l’allineamento Sole-Terra-Luna) si può avere semmai solo
un’eclisse di luna, mai di sole.
Abbiamo
altresì delle caratteristiche tipiche di un solo evangelista: ad es. è un dato
tradizionale presente in modo massiccio nell’iconografia popolare e artistica
che Pilato si sia lavato le mani (unitamente alla preoccupazione ed al sogno
della moglie) e che Giuda si sia suicidato impiccandosi. Ma questi eventi si
trovano solo nel vangelo di Matteo. Allo stesso modo, in seguito alla
scaramuccia durante la cattura ed al taglio dell’orecchio (destro,
precisazione solo lucana e giovannea) del servo del sommo sacerdote da parte di
uno dei seguaci del Nazareno, Gesù solamente nel vangelo di Luca
tradizionalmente (ri)attacca l’orecchio reciso; più precisamente «toccandogli
il lobo dell’orecchio, lo guarì», o, secondo alcune varianti, «stesa la
mano lo toccò e il suo orecchio fu restituito (all’integrità)». Solo nel
quarto vangelo (in cui non c’è il bacio di Giuda ed è Pietro colui che
recide l’orecchio al servo “Malco”, chiamato per nome solo qui), al
“Sono io” di Gesù i soldati e le guardie stramazzano a terra.
Ma queste
sono aggiunte del singolo evangelista, anche se sconosciute agli altri. Quello
su cui invece non concordano, i sinottici da una parte ed il quarto vangelo
dall’altra, è il giorno esatto in cui cadeva la Pasqua (il 14 di Nisan), che
poteva essere qualsiasi giorno della settimana, e non un giorno fisso (come per
noi di domenica). Tutti i vangeli sono d’accordo sul fatto che l’ultima cena
sia avvenuta il giovedì sera (per noi; secondo l’uso ebraico dopo il tramonto
del sole è già venerdì), la riunione del Sinedrio durante la notte, il
processo davanti a Pilato grosso modo il mattino del venerdì, la crocifissione
verso mezzogiorno e la morte alle tre.
I
sinottici però lascerebbero intendere che la Pasqua cadesse quel venerdì,
mentre per Giovanni cadeva il sabato. La divergenza di per sé non sarebbe poi
così importante, se non per la diversa collocazione e connotazione che
acquisisce in tal modo l’ultima cena. Per i sinottici, a tramonto avvenuto,
sarebbe già cominciata la Pasqua, per cui l’ultima cena viene ad essere una
cena pasquale ebraica, un rito con tutti gli annessi e connessi (soprattutto i
possibili travasi dal Giudaismo al Giudeo-Cristianesimo). Per il quarto vangelo
invece (con la Pasqua di sabato) l’ultima cena viene ad essere un comune pasto
conviviale, importante ma deritualizzato e desacralizzato: infatti in Giovanni
abbiamo solo la lavanda dei piedi, senza il minimo accenno ad alcun discorso
eucaristico, da lui già “anticipato” e sviluppato nel cap.
Il culto sostituito dalla cena
Negli
stessi sinottici comunque la cena pasquale risulta monca, poiché manca
qualsiasi accenno all’agnello pasquale. L’ultima cena viene così ad essere
un comune pasto “normale”, molto meno rituale di quanto si pensi.
D’altronde è difficile pensare che, dopo la
posizione presa davanti al popolo nell’atrio del Tempio, Gesù avesse
interesse a sintonizzarsi e a sincronizzarsi (tramite una ritualissima cena
pasquale ebraica) con gli atti di culto e i sacrifici offerti dai sacerdoti e
dai leviti nei giorni che precedevano la Pasqua, dato l’atteggiamento critico
che aveva assunto nei confronti della struttura sacerdotale e levitica. Diventa
senz’altro difficile immaginare che Gesù, un paio di giorni dopo una critica
così aspra e pubblica alla struttura sacrale, possa aver preso un agnello
pasquale per consumarlo solennemente con i suoi discepoli in comunione cultuale
con i sacrifici del tempio. Gesù vede invece in questa sua cena il preannuncio
del banchetto escatologico, in cui saranno riuniti tutti i popoli nel Regno di
Dio: ivi si sarebbe mangiato e bevuto in un modo e in una condizione totalmente
diversa.
Gesù
intendeva soltanto, in quel momento solenne prima della sua morte, sostituire il
culto pasquale del Tempio che tendeva verso la sua fine. Ai suoi discepoli Gesù
offre qualcosa in sostituzione del culto ufficiale, nel momento in cui non aveva
più senso che il Maestro e i discepoli vi partecipassero. Questa cena
sostitutiva è un semplice pasto fraterno. Anche la lavanda dei piedi, gesto
raccontato dal vangelo di Giovanni, conserva tracce di questo distacco dal culto
ufficiale. La lavanda dei piedi, come purificazione che raduna i discepoli
intorno a Gesù, si presenta come vera purificazione al posto dei lavacri
previsti nel Tempio che ormai dovevano essere superati. Tale superamento è
ulteriormente rafforzato dalla possibile inclusione tra quest’ultimo (la
lavanda) ed il primo dei segni operati da Gesù nell’inizio inaugurale a Cana
di Galilea, con la trasformazione dell’acqua lustrale nel vino del banchetto,
altra stupenda sceneggiatura della Fonte
dei segni, utilizzata dal quarto vangelo; è la cosiddetta, in un misto
greco-tedesco, Semeia-Quelle, la cui conclusione è trascritta pari pari in
20,30-31: «Molti (in verità dunque e) altri segni fece Gesù…che non sono
stati scritti in questo libro…».
D’altra
parte nessuno nell’ultima cena aveva in mente di essere chiamato a fondare un
nuovo culto o di sentirsi investito come ministro di una nuova celebrazione
liturgica. Le parole di Gesù, la frazione e la distribuzione del pane e il giro
del calice non esprimevano altro che la sostituzione dei sacrifici consumati
ritualmente nel tempio. In questo senso, riprendendo le conferenze
milanesi tenute nel mese di marzo 2002 da Pius Ramon Tragan, «possiamo
escludere l’istituzione da parte di Gesù di un nuovo culto che dovesse
persistere per secoli. Possiamo anche escludere che i suoi discepoli avessero
capito di essere eletti e ordinati “sacerdoti” in funzione di un culto di
carattere duraturo. Possiamo anche escludere che Gesù abbia preteso
d’identificare il pane distribuito ai commensali con il suo corpo presente,
ancora fisico e mortale. Possiamo escludere che Gesù abbia iniziato il giro
della coppa affermando che il vino contenuto dentro fosse il suo sangue. I
discepoli non potevano intuire che fosse stato loro chiesto di bere il vino
trasformato nel sangue del Maestro. Una tale antropofagia va totalmente esclusa
dall’ultima cena».
L’instaurazione
del Regno vicino: ecco il senso e il simbolo di questa cena di commiato. Abbiamo
una rottura nei confronti del culto giudaico, ma senza la pretesa di instaurare
un altro rito. Gesù, interpretando la cena con i suoi discepoli alla luce del
Regno e del banchetto messianico, intravvede l’evento della nuova alleanza, in
cui la volontà di Dio sarà direttamente incisa nel cuore degli uomini. Si
aspettava una trasformazione vicina del mondo, una nuova creazione, il Regno di
Dio e quindi la fine di tutte le tradizioni cultuali e delle strutture
liturgiche.
Questo pane sia il corpo per voi
La
cena, da semplice pasto comunitario “normale”, si è via via caricata di
massicce interpretazioni teologiche sino a diventare un iper-sacramento nel
senso dei “misteri”, con effetti di natura mistico-entusiastica affioranti
dall’idea primitiva del cibarsi della divinità. La cena diventa una variante
di una “teofagia” diffusa universalmente, di una fede primitiva nella
possibilità di appropriarsi delle energie di una divinità mangiando e bevendo.
Proprio questo infatti sarebbe l’aspetto caratteristico dei culti misterici:
in essi si tratta della comunione con una divinità morta e risorta, come ben
sappiamo dai misteri di Attis, Mitra, e dal culto di Dioniso (ad es. le
baccanti). In questo quadro la cena
si sarebbe via via imparentata in modo sempre più stretto col banchetto
misterico, che è una ripetuta azione cultuale separata dal pasto comune, grazie
a cui l’uomo può partecipare alla vita divina. Il suo significato è la
comunione iper-sacramentale, vale a dire il fatto che i celebranti, mangiando il
pane e bevendo il vino, assimilano il corpo e il sangue di Cristo; sintomatica
sarà poi la festa del Corpus Domini e
l’inno «Adoro Te devote latens Deitas»
(o divinità nascosta).
Forse
Gesù ha detto soltanto: «Questo è/sia/sarà il corpo per voi» (senza mio),
intendendo con ciò: questo pane assume ora per voi la funzione del cibo
sacrificale consumato nel tempio, prende il posto del corpo dell’animale
offerto. E al momento del calice ha aggiunto: «Questo calice, che stiamo
bevendo insieme (questo giro di calice) è il nuovo patto», un patto senza
sacrificio, di pura condivisione senza vittime. Si tratterebbe quindi di un
semplice pasto, che tuttavia decreta la fine di tutti i sacrifici, sia umani che
animali. Esso non simboleggia e non esprime più il dato di fatto disumano che
la vita vive a costo di altra vita umana (la radice del male), bensì la
promessa che la vita è possibile attraverso la condivisione degli alimenti
vitali, attraverso il mangiare e il bere insieme. Il sacramento-simbolo dà
appunto espressione alla trasformazione dell’essere umano da essere vivente
“asociale”, che vive a prezzo di altre vite, in un essere “collaborante”
che condivide e dona nella solidarietà, gratuità, reciprocità,
intersoggettività. Se proprio di rito vogliamo parlare, il nuovo “rito”
introdotto da Gesù è la struttura ontologica relazionale
culminante nella regola d’oro; in parole più semplici, il nuovo
“culto” inaugurato da Gesù è la liturgia del bene.