Un bel regalo alle mafie
di Luigi Ciotti
“il manifesto” del 29 novembre 2009
«Gli arresti e le condanne da soli non bastano. È necessario
colpire la mafia nei suoi interessi. Le deve essere sottratto il denaro sporco».
Pio La Torre, grande sindacalista e uomo politico ucciso da Cosa nostra, è
stato il primo a capire la necessità di attaccare l'economia mafiosa. La legge
Rognoni-La Torre del 1982, approvata dopo la sua morte, introduce l'articolo 416
bis, che definisce il reato di associazione mafiosa, e istituisce la confisca
dei beni del crimine organizzato. Quattordici anni dopo, nel 1996, Libera
raccoglie un milione di firme per una legge, la 109-96, che finalizza la
confisca all'uso sociale: le ricchezze mafiose sono un furto alla collettività
e, come tali, alla collettività devono tornare.
Ora quella legge, che ha permesso la confisca di 9.100 beni e l'assegnazione di
circa 5.400 (di cui 539 consegnati alle forze di polizia, il resto gestiti da
480 Comuni e da 150 associazioni) rischia di essere tradita nello spirito e
mutilata nell'efficacia. Un emendamento della finanziaria appena passata in
Senato stabilisce infatti che i beni immobili non destinati entro i tempi
previsti - 3 mesi o 6 nei casi più complessi - siano messi in vendita. Data la
difficoltà delle procedure e le lungaggini burocratiche è però ipotizzabile
che la norma venga applicata alla totalità dei beni. Sono infatti ben 3.213
quelli attualmente bloccati all'agenzia del Demanio: il 36% perché soggetti a
ipoteche bancarie, il 30% perché occupati, un'altra consistente parte perché
beni indivisibili.
Libera non ha mai considerato il divieto di vendita come una regola che non
ammette eccezioni. In questo caso, però, l'eccezione rischia di diventare la
regola, e le prime a rallegrarsene sarebbero proprio le organizzazioni
criminali: già ora fanno di tutto per eludere i controlli e riappropriarsi dei
beni, figuriamoci se fossero messi all'asta! A ringraziare del dono inaspettato
sarebbero, tra gli altri, i parenti del defunto boss Michele Greco detto «il
Papa», impegnati a riacquisire una proprietà di 150 ettari appartenuta al loro
congiunto ma ancora non destinata a causa di un'ipoteca, oppure i membri del
potente clan Arena, che a Isola di Capo Rizzuto, Crotone, hanno subito lo smacco
di vedersi confiscare immobili di grande valore. E chissà in quali mani
finirebbero - attraverso reti di intermediari, prestanome, «amici degli amici»
- altri beni come il castello del boss della camorra Pasquale Galasso sul Lago
d'Orta, in provincia di Novara, o l'albergo confiscato al «cassiere» della
Banda della Magliana Enrico Nicoletti, del valore di 6 milioni di euro ma
inagibile e gravato da ipoteca.
Con la credibilità delle istituzioni, a essere colpita sarebbe la forza di una
legge che non si è limitata ad affermare un principio etico, ma lo ha tradotto
in «metodo», in orizzonte operativo: la lotta alle mafie è efficace se
sappiamo saldare il contrasto al crimine con le politiche sociali, i posti di
lavoro, i progetti educativi capaci di risvegliare le coscienze, denunciare le
complicità e le contiguità, aprire un varco nell'edificio d'illegalità,
corruzione, indifferenza su cui si fonda il potere mafioso. Una legge che, anche
grazie alla «sana testardaggine» di uomini come Renato Profili, compianto
Prefetto di Palermo, ha saldato la legalità alla corresponsabilità, ha ridato
valore al concetto di «spazio pubblico» in quanto bene condiviso e non
esclusivo, ha individuato nelle attività sui beni confiscati una delle chiavi
di volta del cambiamento.
Non possiamo permetterci di perdere questo patrimonio, di uccidere la speranza
che ha generato, di vanificare una ricchezza sociale, etica, culturale nata
dalle ricchezze sporche di sangue delle mafie. Per questo come Libera abbiamo
chiesto di ritirare l'emendamento. Così come abbiamo denunciato nei mesi scorsi
la sempre più stridente contraddizione tra il grande lavoro di magistrati e
forze di polizia e segnali politici che vanno esattamente in direzione opposta:
pensiamo alla vicenda del Comune di Fondi infiltrato dalla mafia e non sciolto
nonostante l'accurata documentazione di un Prefetto, o alla ventilata riforma
sulle intercettazioni telefoniche, che priverebbe i magistrati di un
fondamentale strumento d'inchiesta contro il crimine organizzato.
Il nostro «no» vuole essere non pregiudiziale ma propositivo. Si rafforzi
allora l'azione di chi indaga per individuare le ricchezze dei clan. Si
introducano norme e organismi che facilitino il riutilizzo sociale dei beni.
Venga applicata la norma che estende la confisca e l'uso sociale alle proprietà
dei corrotti. Siano prioritariamente destinati ai famigliari delle vittime e ai
testimoni di giustizia i proventi dei beni mobili e i soldi sottratti alle
mafie. Ma non vendiamo quei beni confiscati che rappresentano il segno del
riscatto di un'Italia civile, onesta e coraggiosa. Perché quei beni sono
davvero tutti «cosa nostra».