Intorno all'“Agorà”. Ipazia, una donna per la libertà
di Gabriella Caramore
“Adista” - Segni Nuovi – n. 36 del 1 maggio 2010
La figura di Ipazia – matematica, astronoma e filosofa greca, massacrata nel V sec. dal fanatismo della prima Chiesa cristiana – continua ad affascinare e a essere oggetto di studio. Ora che la sua storia, raccontata dal regista Alejandro Almenábar nel film campione d’incassi, “Agorà”, dopo mesi di ritardo arriva finalmente nelle sale italiane (dal 23 aprile), fioccano le iniziative di approfondimento. Un incontro a Roma (Palazzo Mattei, 14 aprile scorso), in collaborazione con l’Istituto Treccani, ha visto la partecipazione dello storico Luciano Canfora, del filosofo Giulio Giorello, della giornalista Gabriella Caramore (conduttrice e curatrice della trasmissione radiofonica “Uomini e Profeti”), e della bizantinista Silvia Ronchey. Di seguito il testo dell’intervento di Gabriella Caramore.
(…) La storia dell’intreccio tra Chiesa e potere è lunga, lo sappiamo, quasi duemila anni, frastagliata, diversamente composta e ricomposta. Non ho nessuna pretesa di farne qui una sintesi. E inoltre andrebbe ripercorsa sui due fronti: quello della laicità e quello della fede, quello di Cesare e quello di Dio.
Quello che, personalmente, più mi interessa, è cogliere la “tragedia” – non potrei chiamarla diversamente – consistita nel legame stretto stabilitosi tra la Chiesa e l’Impero: la tragedia di una comunità [o più comunità] di dispersi e perseguitati che, aggrappandosi alle vesti ormai a brandelli dell’Impero, ne accoglie e asseconda l’istanza di egemonia e di dominio. Ma, così facendo, nega, cancella e tradisce la parola di libertà e di benedizione per le genti dalla quale era sorta.
Nella storia di Ipazia prende forma l’intreccio di un potere religioso e un potere politico che si danno la mano (siamo a quasi un secolo dalla svolta di Costantino) per stroncare la libertà della ricerca e la bellezza della conoscenza. Naturalmente è doveroso pensare che le cose non siano state così schematiche. Da una parte Chiesa e potere, dall’altra il puro e libero sapere. Molteplici tensioni erano in gioco, poliedrici interessi. (…) Ma quello che colpisce è che il grande passo è stato compiuto: quella che era una ecclesìa di poveri e umiliati, di smarriti e diseredati, di mansueti e fiduciosi nella misericordia di Dio e non nel trionfo del mondo, si mette dalla parte dei potenti, si arroga il diritto di imporre la propria verità, fa valere con la violenza la propria egemonia, baratta con la prepotenza l’umile adesione a una vicenda di sconfitta.
Non dobbiamo essere “manichei” nel giudizio. Sappiamo quale scommessa, quale salto nel buio sia uscire da uno stato di minorità per sopravvivere. Tutti i movimenti sovversivi della storia, nati come movimenti di liberazione, ce lo hanno mostrato. (…) Sappiamo anche che sarebbe troppo semplicistico ribaltare il giudizio di secoli di storia che hanno visto nei grandi padri fondatori della Chiesa – da Ambrogio a Giovanni Crisostomo ad Agostino – delle persone dal retto giudizio sul mondo, ribaltarlo giudicandoli spietati persecutori delle minoranze oppresse. (…) Ma quello che non possiamo non vedere – e che anche la Chiesa di oggi, forse, dovrebbe considerare – è che stringendosi, con un patto, al potere la Chiesa ha vinto nel mondo, ma ha perso nel Regno (se così si può dire). Tutte le parole dell’Evangelo, e la vicenda stessa della croce, narrano di una vita che deve essere perduta se la si vuole salva (Matteo 16,25; Marco 8,35; Luca 9,24; 16,33); di una opzione per avere la postazione “ultima” nelle graduatorie del potere (Matteo 20,16; Marco 10,31; Luca 13,30); di una adesione ai poveri, agli afflitti, ai miti, a quelli che hanno fame e sete della giustizia, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per causa della giustizia, agli insultati (Matteo 5,3-11; Luca 6,12-13.20). Nel momento in cui la Chiesa capovolge questa “logica” di Gesù – che è una logica capovolta rispetto ai valori del mondo –, nel momento in cui si fa “prima” e siede sui troni del potere, in questo momento inizia la sua “crisi”. Non una crisi rispetto alla mondanità, ma una crisi rispetto alla “evangelicità”. Inizia la sua fatica, la sua contraddittorietà, che dura ancora oggi, a vivere nella sequela del Cristo. Gesù di Nazareth non ha mai taciuto di fronte alla menzogna, non ha mai preteso egemonie, si è lasciato condurre al macello come “pecora muta” senza mai aggrapparsi a poteri mondani. Il cristianesimo – non la cristianità nella sua storia, ma la parola cristiana nella sua sorgività – è una religione della libertà. Gesù ha predicato la libertà dalla menzogna, la libertà dal potere, la libertà dai vincoli familiari, la libertà dall’ossequio al tempio. Sposando l’Impero la Chiesa ha “tradito” questo impegno di libertà e si è immessa in un traiettoria ambigua, di cui stenta a disegnare i contorni.
Di Ipazia si dice che era bellissima, sapiente, capace di scrutare negli spazi stellari, inventrice di strumenti di misurazione e quindi versata nella speculazione e nella sperimentazione, indomabile nell’amore di conoscenza. Non dobbiamo fare l’errore di pensare che fosse l’unica donna sapiente nel suo tempo e nel suo ambiente. E altrettanto sbagliato sarebbe far risalire la misoginia della Chiesa alla fonte evangelica che - nonostante le parole dell’apostolo Paolo, ancora oggi citate a testimonianza di una sottomissione della donna -, testimonia di una straordinaria accoglienza nei confronti dell’universo femminile. (…) Ma non c’è dubbio che il suo essere donna, sapiente, bellissima era un pericolo troppo grande per l’ottusità, l’arroganza, la menzogna. Era “troppo”, Ipazia. Troppo simbolicamente eversiva, pur nell’assoluta innocuità, troppo vistosamente rappresentativa per non personificare un bottino succulento. Una donna che rifiuta di obbedire senza convinzione. Questo è stato intollerabile.
In un poemetto del 1978, Il Libro di Ipazia, Mario Luzi tratteggia Ipazia con modalità che mi sembra possano corrispondere a quelle di una figura di profezia. Vittima di fanatismi incrociati, martire – testimone – dell’amore per la bellezza e per la conoscenza, per la giustizia e per il sapere. Profezia è fenomeno che ha avuto espressioni diverse nelle diverse culture. Biblicamente, il profeta è colui che parla la voce di Dio (che parla “al posto” di Dio). Anche il mondo greco ha avuto i suoi profeti, coloro che parlavano con parresìa, con franchezza, in amore di verità, in spregio del pericolo, a costo della loro vita, perché la comunità fosse salva. Ipazia non ha divinità da ascoltare. Parla a nome di se stessa. Nessun dio le appare immune dagli attributi di idolo che l’essere umano gli conferisce. E tuttavia anche Ipazia è in ascolto di una voce che le impone di dire la verità, di fare verità, e di esprimersi in piena e totale libertà. Anche Ipazia, come i profeti, viene fatta selvaggiamente e esemplarmente sparire – sminuzzata, quasi a dimostrare quanto poteva essere calpestata la voce della verità – cercando di sprofondarla nel silenzio. Ma dove le persone tacciono le pietre continuano a gridare (Luca 19,40). E le pietre e i manoscritti bruciati ad Alessandria hanno continuato a gridare. Si è cercato di farli tacere. Più volte. Ma il loro grido è tornato a risuonare. (…)
Se dovessimo dare una parola “moderna” alla tenace insistenza di Ipazia dovremmo usare, credo, la parola “responsabilità”. Fare buon uso – dare una buona risposta – di ciò che ha ricevuto in dono: fare un buon uso, nella prospettiva delle comunità, della sapienza, della bellezza, della conoscenza. Ipazia è figura del dubbio, della perplessità, della ricerca. Ma la sua storia cade in un momento in cui dubitare è vietato. Occorrono opzioni certe. Occorre scegliere il proprio campo, schierarsi con chi e contro chi combattere. Tutti i poteri totalitari si sono imposti in questo modo. Ma qui, in questo angolo di mondo, in una Alessandria che perde la sua prerogativa di società plurale, ha inizio anche, o si consolida, la monoliticità della Chiesa cristiana. E un mondo che annaspa per non affondare affonda nella barbarie e nella crudeltà per non saper cambiare