di Andrés Torres
Queiruga
da ADISTA n°80 del 23.10.2010
Dall’Agenda Latinoamericana 2011 ideata da dom Pedro Casaldáliga e José Maria Vigil (la cui edizione italiana è curata dal Gruppo America Latina della Comunità Sant’Angelo e promossa, tra gli altri, da Adista, dal Cipsi, dai Giovani Impegno Missionario e dal Sal)
Nel Vangelo disponiamo della migliore e insuperabile immagine di Dio apparsa nella storia. Il passare dei secoli, però, l’ha inquinata e deformata, fino a renderla irriconoscibile in molti aspetti, non sempre i meno importanti. Guardando ai concetti di fondo, ne segnalerò qui alcuni che richiedono con maggior urgenza di essere rivisti a fondo, raggruppandoli in tre capitoli.
Contro una lettura distorta della creazione
Benché in via di superamento, uno dei più grandi problemi che si trascina la teologia attuale è la lettura letterale o fondamentalista della Bibbia. In particolare riguarda niente meno che i meravigliosi racconti della creazione nella Genesi. In essi, col simbolismo profondo del linguaggio mitico, ci viene espressa l’intenzione di Dio di ricercare per noi nul-l’altro che la realizzazione, l’amore e la felicità. Questo vuole significare il simbolo del “paradiso”: la meta a cui siamo destinati. A questa meta si oppone il male; per questo la Bibbia lo colloca “al di fuori di Dio”. La narrazione mitica, preoccupata di richiamarci alla bontà, si sofferma soprattutto sul peccato umano che, come mostrano i primi capitoli - dall’assassinio di Caino alla corruzione universale -, produce tanti danni. Ma prendere alla lettera, convertendo in spiegazione fisica o metafisica ciò che vuole semplicemente essere un’esortazione morale, conduce all’assurdità.
1) Iniziamo col peccato originale: anche dopo essere stata riconosciuta come mitica, la narrazione concreta del-’albero, del frutto e del serpente fa, tuttavia, perdurare l’i-dea terribile che gli spaventosi mali del mondo sono un “castigo divino” a causa della colpa storica commessa dai nostri avi. Con ciò nell’inconscio collettivo si stanno imprimendo due concezioni mostruose: a) che Dio è capace di castigare in modo terribile, e b) che lo fa a miliardi di discendenti che non hanno la minima colpa per quel presunto errore. Inoltre si rinsalda l’idea - così diffusa e dannosa - che, in ultima istanza, se c’è male nel mondo è perché Dio lo ha voluto e lo vuole, dato che il paradiso sarebbe stato possibile sulla terra. E, oltretutto, il castigo sarebbe sproporzionato. In questo modo sopravvive la credenza generale che la sofferenza, la malattia e la morte provengano da una decisione divina, come forma di castigo.
2) Di pari passo a questa, c’è l ’idea che l’uomo e la donna siano stati creati per la “gloria” di Dio e a suo “servizio”. In queste parole può esserci un significato accettabile, ma nella mentalità normale sono state prese alla lettera: è Dio che esige che lo serviamo per salvare l’anima; contrariamente ci sarà il castigo. Feuerbach fondò qui il suo ateismo: “perché Dio sia tutto, l’uomo non deve essere nulla”. Quando invece la verità è il contrario: al crearci, Dio non pensa a sé stesso, ma solo e unicamente al nostro bene. Con lo stesso linguaggio, bisognerebbe piuttosto dire che, come si è manifestato in Gesù, è Dio colui che “serve” noi, perché ci ama e ne abbiamo bisogno.
3) La morale, lungi dall’essere la parola di amore e la promessa di aiuto che ci orienta e sostiene verso la vera felicità, si trasforma in un peso imposto da Dio. Kant ha denunciato questa concezione come indegna e infantilizzante. E il peggio è che fa vedere lo sforzo, la disciplina e anche il sacrificio che molte volte - per ogni persona, credente o non credente - la morale comporta, come qualcosa che Dio c’impone perché lo vuole, mentre potrebbe renderci la vita più facile. Certamente non sarà mai possibile valutare quanto risentimento questa terribile concezione ha accumulato nella coscienza di molti credenti.
4) Tutto ciò, aggravato a livello intollerabile con l’idea dell’inferno, come castigo per coloro che non “servano” o non “adempiano”. Dio, che ama senza limiti e perdona senza condizioni, ha finito per essere descritto come capace di castigare per tutta l’eternità, e con tormenti inauditi, mancanze in definitiva sempre piccole, frutto di una libertà debole e limitata. La crescita della sensibilità comporta ai nostri tempi un’opposizione generalizzata alla pena di morte e anche al-l’ergastolo: sarà che gli uomini sono migliori di Dio?
5) La visione del peccato marcia in parallelo. Tommaso d’Aquino aveva già detto che il peccato non è un male perché fa del male a Dio, ma perché lo fa a noi: “perché offendiamo Dio nella misura in cui agiamo contro il nostro bene”. Tuttavia, gran parte della teologia e della predicazione continua a ignorare che la cosa fondamentale è l ’interesse di Dio affinché non facciamo danno a noi stessi, non guastiamo la nostra vita e roviniamo la nostra realizzazione. Il padre del “figlio prodigo” non si preoccupa del suo onore o della sua offesa, ma per il fatto che il figlio “era morto, ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Tutto ciò, unito alla deformazione moralista, ha fatto sì che, al fondo della coscienza di molta gente, sia cresciuta, come un verme velenoso, l’idea che il peccato sarebbe stupendo per noi, ma non possiamo gustarcelo perché Dio ce lo proibisce. In altre parole, Dio non vorrebbe che fossimo felici.
Contro una lettura deformata della redenzione
Se questo è ciò che succede con la creazione, le conseguenze si fanno maggiormente sentire nella redenzione. La meraviglia, che mai avremmo immaginato da soli, di un Dio che si fa presente nella storia per aiutarci, in mille modi e con infinita pazienza, a vincere il male e il peccato, si trasforma per molti in un terribile “regolamento di conti”, con un castigo all’inizio e una minaccia alla fine.
1) Si comincia con un particolarismo inconcepibile. Un Dio che, creando per amore, suscita da sempre una salvezza laddove c ’è un uomo o una donna, ossia dappertutto ed e-spressamente in tutte le religioni, è stato presentato per molti secoli come unicamente preoccupato per un solo popolo, quello “eletto”. Gli altri sarebbero rimasti fuori dalla sua rivelazione e dalla sua piena salvezza: extra ecclesiam nulla salus. Al massimo sarebbe rimasta loro la speranza - in una specie di lunghissima “lista d’attesa” - che un giorno sarebbe giunta per loro la “missione” (che per milioni di persone non è mai arrivata né arriverà). Per fortuna, dal Concilio Vaticano II, questa terribile visione è in via di superamento. Però i suoi effetti perdurano con intensa vivezza: continua a esserci molto dogmatismo e molto esclusivismo; troppa resistenza a una revisione del concetto di rivelazione, e a un generoso dialogo delle religioni.
2) Ancora più grave è stata la visione sacrificale di tutto il processo. Lo sforzo di Dio per intensificare al massimo la sua presenza e aprire strade alla sua grazia; la rivelazione, attraverso Gesù, del suo amore senza misura e della sua comprensione senza limiti delle nostre debolezze e del nostro peccato; il suo non tirarsi indietro benché tale amore gli costasse niente meno che l’assassinio del suo “Figlio prediletto”... tutto questo è stato interpretato come un “prezzo” che Egli esigeva, come un castigo necessario per “placare la sua ira”.
È doloroso usare queste espressioni, però, per quanto possa sembrare incredibile, possono ancora essere lette - per esempio, prendendo alla lettera “l’abbandono” sulla croce - in importanti teologi del nostro tempo: non solo in Lutero e Calvino, che erano ancora vicini al medioevo, ma anche in Barth, Moltmann e Urs von Balthasar, per citare alcuni dei più grandi. Insisto perché, anche se non metto in discussione le buone intenzioni, è indispensabile evitare tutto ciò che possa oscurare l’amore infinito del Padre. Da una prospettiva di fede, in un’interpretazione non fondamentalista, dobbiamo stare sicuri che Dio non è mai stato tanto vicino a suo Figlio come quando lo misero in croce (non lo “abbandonò”), e che mai avrebbe permesso la sua morte, se fosse stato possibile evitarla (non fu Lui che “volle” l’agonia dell’orto degli ulivi).
3) Infine c ’è qualcosa che, al fondo, è molto più grave, perché comprende tutto: tutta la sofferenza del mondo sarebbe un castigo di Dio a causa di un peccato che, al di fuori di Adamo ed Eva, nessun altro ha commesso; di modo che, se Dio non ci castigasse - cioè se fosse compassionevole e perdonasse - vivremmo in un paradiso. E poi, per perdonarci, avrebbe imposto niente meno che il sacrificio cruento di suo Figlio. Infine, se non ci comportiamo bene, ci aspetta il castigo eterno dell’inferno (sul quale, con conseguenze deleterie, tanto ha insistito la “pastorale della paura”).
Questo schema si è incrostato come qualcosa di tanto ovvio nell’immaginario religioso che nemmeno si vede ormai né si percepisce la sua autentica mostruosità, che fortunatamente, quando viene esplicitata, quasi nessuno prende alla lettera. Però, proprio per questo, è necessario esporlo crudamente per poterlo rifiutare con tutte le forze e per sostituirlo con quello vero, già al fondo proposto da Sant’Ireneo nel II sec.: creazione nella inevitabile debolezza della nascita; sostegno amoroso di Dio nella storia nonostante le nostre mancanze e peccati; culmine di questo sostegno nella pienezza salvatrice di Cristo; speranza di salvezza piena nella Gloria. Vale a dire la promessa di una nascita e la speranza di una felicità gloriosa.
Contro un ’esperienza deformata della spiritualità
Com’era ovvio, questa duplice visione, che abbiamo ora profilato schematicamente, finisce con l’articolare l’espe-rienza della fede nella vita concreta.
1) La visione dualista si pone in primo piano, perché è questa che, in qualche maniera, organizza lo spazio religioso. Dio lassù e noi quaggiù, il sacro e il profano, ciò che riguarda Dio e ciò che riguarda noi, la Chiesa e il mondo... marchiano a fuoco la vita spirituale. Sarebbe ingenuo pensare che tale distinzione possa essere completamente soppressa, poiché risponde a un dato reale: la differenza tra Dio e la sua creazione. Questa differenza però afferma il nostro essere: Dio non ci ruba spazio. Al contrario: quanto più è presente, tanto più ci fa essere; quanto più accogliamo la sua azione, tanto più realizziamo noi stessi. Lo sbaglio è convertire la differenza in distanza, la distinzione in dualismo, il sostegno in imposizione. Perché allora Dio si trasforma in un signore e la religione consiste nel servirlo, placarlo, chiedergli aiuto e favori, per ottenere il suo premio ed evitare il castigo.
2) Da questa concezione deriva spontaneamente una visione negativa della vita. La redenzione si separa dalla creazione e si contrappone ad essa, in modo che tutto il creato finisce per apparire indifferente per la fede, quando non sembri negativo e corrotto. Testi della Scrittura, in sé profondi e venerabili, vengono letti in senso opposto a quello che, in realtà, volevano esprimere. Così, per esempio, il richiamo a negarsi a se stessi o a perdere la propria vita non può significare l’annullamento della propria vita, ma esattamente l’opposto: negare la nostra negazione, ossia ciò che danneggia il nostro autentico essere, che ci impedisce di realizzarci e giungere alla pienezza. Dio non vuole annullare il nostro essere, ma portarlo alla sua affermazione letteralmente infinita.
3) Le conseguenze sono state gravi. Da qui è nata una spiritualità nemica del corpo e diffidente verso ogni piacere, che optava per la fuga mundi e per agere contra come stile globale. Si affermò così uno spirito di sacrificio che, incoscientemente, metteva tra i credenti l’idea che Dio è contento quando ci vede soffrire, o che concede favori in cambio della nostra sofferenza gratuita o dei nostri sacrifici. Non ci può stupire che si sia arrivati molte volte a degli eccessi che oggi ci fanno orrore (certi gruppi e certi santuari ne mostrano ancora troppi resti) e che si possa essere giunti ad accusare il cristianesimo di essere nemico della vita (Nietzsche).
4) Ancora peggio: questo punto di vista ha celato all’evi-denza la sofferenza veramente cristiana. Non quella ricercata con la mera ascesi o per la propria perfezione, ma quella che, come Gesù, viene assunta quando è necessario per amore degli altri. È il lavoro del servizio, è mettere a repentaglio la propria vita a favore della giustizia, è essere capaci di rinunciare a ciò che ci appartiene in favore dei poveri. È, in definitiva, ciò che la teologia della liberazione e l’esempio dei suoi martiri cercano di insegnarci, avendolo imparato da Gesù: Egli non rifuggì il piacere normale del vivere, fino a essere considerato un “mangione e un bevitore” per non aver praticato un’ascesi artificiosa; però fu capace di amare “fino all’ultimo”, giungendo a dare la sua vita per amore di tutti.
5) Infine, segnaliamo qualcosa di meno evidente ma di importanza decisiva: l’inversione radicale dell’esperienza cristiana della grazia, che è arrivata a cambiare il senso della preghiera: creandoci per amore, Dio prende l’iniziativa assoluta sia per trarci alla dimensione dell’essere (momento della creazione) sia per aiutarci nella sua realizzazione (momento salvifico). Perciò a noi è chiesto di accogliere la sua iniziativa: lasciarci essere e salvare da Lui, accettando la sua grazia e collaborando con la sua azione in noi e negli altri. Però, senza rendercene conto, abbiamo ribaltato tutto, fino al punto che sembra che siamo noi coloro che prendono ogni iniziativa, come se fossimo quelli veramente interessati alla salvezza e dovessimo convincere Dio a interessarsi anch’Egli...
La preghiera si trasforma allora in richiesta, che osa ricordare a Dio le necessità del prossimo, convincerlo ad aiutare gli ammalati o le vittime; possiamo persino offrirgli doni e sacrifici perché si animi; e, infine, arriviamo a ripetergli in coro che sia buono e compassionevole: che “ascolti e abbia pietà”. So che queste parole sono ingiuste rispetto alle intenzioni di chi prega. Ma è necessario rilevare il falso orientamento e la terribile inversione di ruoli tra Dio e noi.
So bene che esistono obiezioni e difficoltà... Però è necessario riflettere e parlarne. L’evidenza primaria di queste riflessioni dovrebbe animarci a una nuova creatività e allo sforzo sincero per aggiornare la comprensione e l’esperienza della fede.