di Luca Kocci
ADISTA n° 73 29.9.2010
35779. ROMA-ADISTA. "Come può
la maggioranza dei mafiosi dirsi cattolica e
frequentare le chiese? Qualcosa certamente non
funziona: o nella loro testa o nella teologia
cattolica o in tutte e due." È l’interrogativo
posto dal filosofo e teologo Augusto
Cavadi – esperto dei rapporti fra
Chiese e mafie e autore, fra l’altro, del
Dio dei mafiosi (San Paolo, pp. 240, euro
18) – al convegno "Sotto due Cupole" (v. notizia
precedente).
"Non si tratta tanto di scomunicare i mafiosi,
ovvero di cacciarli fuori dalla comunità
ecclesiale, quanto di elaborare una teologia
davvero evangelica a cui i mafiosi siano
allergici e grazie alla quale si tengano a
debita distanza dalla Chiesa", ha detto Cavadi.
"Da una Chiesa povera e fraterna, i mafiosi, che
perseguono potere e denaro, si
autoescluderebbero da soli e anzi la
considererebbero loro nemica. Invece in questa
nostra Chiesa potente, gerarchica, verticistica,
omofoba e ritualistica i mafiosi si trovano
bene, perché vi trovano molte analogie con i
codici e mafiosi. Insomma, io credo che se la
patologia è ricorrente, e del resto in altri
contesti storico sociali con la Chiesa cattolica
si sono trovati bene anche diversi regimi
dittatoriali e militari, allora non è più
patologia, bensì fisiologia. E questo significa
che il problema non sono solo i singoli uomini
di Chiesa compiacenti con i mafiosi, ma una
teologia che non produce una visione del mondo
incompatibile con la visione che del mondo ha la
mafia".
Ma quali sono questi elementi della teologia
cattolica ‘intonati’ alla visione mafiosa?
Cavadi ne ha elencati alcuni: "Un ambiguo
concetto di Dio, non sempre presentato come Dio
Padre ma spesso come onnipotente, severo e
implacabile, che dà e toglie la vita: quasi un
‘dio padrino’. Un’altrettanta ambigua immagine
di Cristo, in molte occasione assai distante dal
Gesù di Nazareth che annuncia il Regno di Dio
per i poveri. E poi una Chiesa gerarchica,
costruita più sul modello dell’Impero romano che
sulla comunità democratica degli apostoli. Con
questo non intendo sostenere che la teologia
cattolica sia ‘mafiogena’, cioè produttrice di
mafia, tuttavia è vero che contribuisce alla
strutturazione del particolare contesto
culturale nel quale la mafia si è costituita e
dal quale mutua simboli, credenze e pratiche. E
allora si tratta di rivisitare questa teologia
per renderla incompatibile ai codici mafiosi e
antipatica ai mafiosi stessi, a partire proprio
dai quei tre elementi: un Dio senza
antropomorfismi, un Cristo liberante e una
Chiesa fraterna, povera e diaconale". Se cambia
questa teologia, ha aggiunto Cavadi, si potrà
risolvere anche la questione di don
Puglisi che il Vaticano non vuole
dichiarare martire, come invece chiedono molte
associazioni ecclesiali di base palermitane (v.
Adista nn. 61 e 71/10), "perché sarà martire
anche chi lotta per la giustizia, come appunto
ha fatto don Puglisi". "Il Vaticano – ha
aggiunto Giovanni Avena,
direttore editoriale di Adista, che ha
moderato il convegno – rifiuta ancora il
riconoscimento del martirio di don Puglisi con
un’argomentazione speciosa: il titolo di
‘martire’ può essere tributato solo ai cristiani
ammazzati ‘in odio alla fede’. E siccome non si
considera la mafia né pagana né atea, perché
anzi osserva le pratiche religiose, la teologica
conseguenza è che i mafiosi di Brancaccio non
potevano uccidere don Pino in odio alla loro
stessa fede, ma solo perché a Brancaccio
ostacolava le loro imprese. Insomma ‘se l’era
andata a cercare’, come qualche giorno fa ha
detto l’ex presidente del Consiglio Giulio
Andreotti parlando di Giorgio Ambrosoli,
commissario liquidatore del Banco Ambrosiano di
Sindona ucciso nel 1979".
Dura l’autocritica di don Luigi Ciotti,
presidente di Libera: "A fronte dell’impegno di
pochi vescovi, diversi preti e gruppi cattolici
di base, ci sono ancora troppe ambiguità e
compiacenze da parte di molti uomini di Chiesa
nei confronti della mafia. Per questo mi auguro
che Benedetto XVI, che il 3 ottobre sarà a
Palermo, dica parole forti e chiare
sull’incompatibilità fra mafia e Vangelo. La
Chiesa deve avere il coraggio della denuncia,
deve sporcarsi le mani per la giustizia, come
hanno fatto don Puglisi e don Peppe Diana. Ma io
vedo ancora troppi silenzi e troppe ambiguità, e
silenzi e ambiguità non hanno giustificazioni".