La
società fra etica e anestetica
ILVO DIAMANTI
Repubblica
— 14 febbraio 2010
Il
sospetto è che: "Tanto rumore per nulla". Come altre volte. Che il
clamore intorno allo scandalo sugli appalti gestiti dalla Protezione civile in
vista del G8 a La Maddalena e nella ricostruzione, dopo il terremoto in Abruzzo,
alla fine, non produca effetti. Non ci riferiamo all' ambito giudiziario. L'
inchiesta seguirà il suo percorso, per accertare la fondatezza di accuse tanto
infamanti. Ne verificherà le responsabilità e i responsabili. Non ci riferiamo
neppure al versante politico, dove tutto si è svolto secondo copione. A partire
dalla difesa del premier nei confronti del sottosegretario Bertolaso. Attesa e
prevedibile, anche nelle parole. Quasi per riflesso pavloviano. Il nostro
sospetto riguarda, invece, l' atteggiamento della "società media",
rilevato dai sondaggi. Tradotto e banalizzato in Opinione Pubblica. L' opinione
della maggioranza. Silenziosa. Il sospetto è che, anche questa volta, la
reazione della "società media" si limiti a quel brontolio, continuo e
diffuso, che pervade la vita quotidiana. Dove tutti - davvero: tutti - si
lamentano, recriminano, criticano. A voce bassa. Dichiarano la loro sfiducia
verso i "politici". Di ogni parte. Ma soprattutto di sinistra, perché
loro, prima e più degli altri, hanno sollevato la questione "morale".
Se ne sono fatti garanti. Finendone, anch' essi, invischiati. Per cui prevale la
convinzione - popolare - che ogni reazione, ogni moto di indignazione: è
inutile. Non serve. Sono tutti uguali. E nulla cambia. Da ciò il rischio: l'
assuefazione a ogni scandalo. Che quindi non dà più scandalo. E induce, anzi,
a guardare con sospetto chi si scandalizza. A trattarlo - con acida ironia - da
"professionista dell' indignazione". Così, dopo ogni esplosione
polemica, sopravviene - e ritorna - il silenzio. O meglio: il mormorio. La
colonna sonora (meglio: il sottofondo) al tempo della "società
sfrenata". Senza freni. Perché, anzitutto, si sono persi i riferimenti che
associavano e orientavano i cittadini. Nel rapporto con le istituzioni e con il
governo. I partiti di massa, grandi educatori al servizio di un progetto futuro.
Dissolti. Personalizzati e oligarchici. Le grandi organizzazioni
"intermedie" di rappresentanza. I sindacati, in primo luogo. Perlopiù
burocratizzati. Una base ampiamente composta da impiegati pubblici e pensionati.
Difficile chiedere loro di imporre vincoli morali. Fatica perfino la Chiesa,
scossa e divisa al suo interno, come dimostrano le tensioni emerse dopo la
campagna diffamatoria che ha costretto alle dimissioni il direttore dell'
Avvenire, Dino Boffo. Lo stesso mondo del volontariato, il mitico Terzo settore,
oggi appare impegnato - peraltro, con successo - sul mercato dei servizi più
che dei valori. E gli "intellettuali". Reclutati dai media.
(Soprattutto dalla tivù). Oppure dai partiti. Voci deboli, perché hanno poco
da dire. (Io, naturalmente, non mi chiamo fuori. Anche se la definizione di
"intellettuale" mi fa rabbrividire). Così, oggi è difficile trovare
soggetti in grado di rafforzare il senso "civico" della società, ma
anche di inibire il senso "cinico". Mancano, cioè, i
"freni". Gli stessi "anticorpi della democrazia", come
scrive da tempo Giovanni Sartori. Ma forse c' è dell' altro. Oltre al
"familismo amorale", riferito alla società del Mezzogiorno nel
classico studio di Edward Banfield degli anni cinquanta - e oggi esteso all'
intera società italiana. Oltre alla delusione prodotta dal ripetersi ciclico di
rivolte antipolitiche puntualmente riassorbite e rimosse. Prima Tangentopoli,
poi, quindici anni dopo, la Casta. E come effetto: dai partiti di massa ai
partiti personali, ispirati da Forza Italia e Silvio Berlusconi. Oltre a tutto
ciò, dietro al disincanto diffuso del nostro tempo, c' è la mutazione del
rapporto fra società e politica. Mediato dai media. Cioè: im-mediato. Senza
mediazione. La politica e i leader di fronte agli elettori soli. In modo
asimmetrico e squilibrato. Perché oggi la metafora più adeguata per descrivere
il sistema della rappresentanza (ben delineata dal filosofo Bernard Manin)
richiama la "scena", dove si confrontano gli attori e il pubblico. Il
quale può, certamente, decretare il successo oppure il decesso di un programma
e (simbolicamente) di un attore. Ma, appunto, non è lui a decidere i
palinsesti. Perché può solo reagire a un' offerta elaborata dall' esterno. A
cui non partecipa. Ebbene, fatti e attori della scena politica in questa fase
propongono una rappresentazione davvero amorale. Dove il dolore si mischia alla
speculazione, la tragedia alla corruzione. Dove il pianto è interrotto dalle
risa. La biografia del potere accosta, una accanto all' altra, figure e immagini
di generi contrastanti. Da Rosarno a Palazzo Grazioli. Da L' Aquila alle
telefonate di Balducci, Anemone e compagnia. E poi: i morti sul lavoro, i
potenti della terra, escort e veline, aggressioni violente, il volto
insanguinato del premier. Le immagini si sommano e si confondono. Senza
soluzione di continuità. In questo paese provvisorio, abitato da post-italiani
(per usare una felice e amara definizione di Edmondo Berselli), tutti siamo
spettatori di una rappresentazione in-differente. Dove non c' è differenza fra
giusto e ingiusto, giudici e malfattori, furbi e onesti. Buoni e cattivi. Perché
i cattivi, i furbi e i disonesti fanno audience. Questa democrazia fondata sulla
"deroga" (come l' ha chiamata nei giorni scorsi Ezio Mauro) rammenta
un reality, anzi: iper-reality show. Dove al massimo possiamo
"nominare": Bertolaso oppure Berlusconi. (Gli altri sono già usciti
dal gioco). Consapevoli del rischio: che il nominato, invece di essere escluso,
resti protagonista della scena. Come prima e più di prima. D' altronde, è
difficile vedere alternativa. Se ci si arrende al pensiero unico: del partito
personale, della scena mediatica al posto del territorio, dello spettatore al
posto del cittadino, del senso comune al posto del senso civico. Dell' Opinione
Pubblica dettata dai sondaggi invece che dal dibattito "pubblico" sui
problemi, con la partecipazione degli attori sociali e degli intellettuali.
Allora il senso civico si confonde con il senso comune. E il senso etico
diventa, al più, anestetico.