Gioventù bruciata
di BARBARA SPINELLI
“la Repubblica” del 8.12.2010
Ha ragione Mario
Adinolfi a ricordare che è cosa insultante oltre che menzognera, parlare di
giovani senza futuro o d'una sola generazione depredata. Un trentasettenne
precario non è più giovane, e il fatto che gli tocchi pregare per essere
riconosciuto (questa l'etimologia di precario) è lo scandalo che vien mascherato
chiamandolo giovane. Una catena di generazioni fatica a preparare prima l'età
matura, poi l'anziana. I nati dopo il '70 sono la metà degli italiani: 28
milioni 150.000, non più solo figli ma padri che della vita attiva non conoscono
che contratti brevi o niente contratti. Che s'imbarcano in lavori low cost o
addirittura gratuiti, come denunciato da Michele Boldrin, professore di economia
alla Washington University di St Louis (Il Fatto, 11 novembre).
Lavorare gratis è una pratica in espansione, per chi non ha forze e soldi per
fuggire all'estero. È una regressione, nei rapporti sociali e nel riconoscimento
reciproco fra l'Italia che ha un posto e l'Italia che ha semplici attività,
menzionata di rado. I giovani fanno questa scelta volontariamente, consapevoli
d'essere immersi nella Necessità: dare il proprio tempo senza salario li rende
visibili, consente di "accumulare punti". Alla fine del tunnel, chissà, il
riconoscimento verrà e avrà gli occhi di un lavoro decentemente pagato. Lo
sfruttamento s'è fatto banale: è un'usanza dettata dal principe (un bando
dell'autorità). È la morale del tempo presente.
Se questa è la realtà, si può capire come la riforma Gelmini sia
solo una miccia - così Ilvo Diamanti, lunedì su Repubblica - che ha acceso
risentimenti acuti, non limitati all'istruzione che pure è "crocevia nella vita"
d'ognuno. Analoghe micce anti-riforme si moltiplicano, a occidente, ma cruciali
non sono le riforme, così come per Heidegger l'essenza della tecnica non è la
tecnica ma quel che essa disvela, provoca. Nella rivolta dei giovani francesi la
pensione è un pretesto: essi sanno che il paese invecchia, che i soldi dello
Stato sociale non bastano. Se protestano con tanto accanimento è perché
qualcos'altro è in gioco: il disagio, più radicale, riguarda l'esistere stesso;
il perché e il come si vive l'oggi e si pensa, tremando e temendo, il futuro.
In tutti i paesi industrializzati il futuro è programmato penosamente. Adinolfi
lo spiega bene nella rivista Week, iniziata il 25 novembre. Basandosi su
ricerche dell'Istat e del Center for Research on Pensions and Welfare Policies
(Torino), Adinolfi fornisce cifre cupe sulla metà d'Italia che vive il
precariato. Al momento, chi va in pensione o sta andandoci è sicuro di ottenere
circa il 95 per cento della media dei compensi degli ultimi anni.
Non così il precario nato dopo il '70: la percentuale crolla dal 95 al 36. Fra
20 anni, quando andrà in pensione, riceverà - se avrà lavorato 32 anni su 40
- 340 euro al mese. Duro in tali condizioni fabbricare futuro, generare figli
che non potremo sostenere e non ci sosterranno, impoveriti anch'essi.
I rivoltosi vedono questo, guardandosi allo specchio: uno scenario che mette
spavento. Che ti porta a dire, visto che a nulla è servito il titolo di studio:
non resta che farmi menare dalla polizia. Esibisco la mia bile nera, come gli
eroi di Moby Dick che è uno dei miei libri-vessillo. Non mi resta, come in
Gioventù Bruciata di Nicholas Ray, che il chicken run. Il chicken run è la gara
mortale che James Dean ingaggia coi compagni: vince chi guida l'auto sino
all'orlo del burrone, tentando di saltar fuori in extremis. Chi fugge la prova è
un pollo, un vile. È significativo che a costoro si neghi oggi perfino il
diritto a morire, quando sei attaccato a un tubo senz'averlo deciso.
Il chicken run che impregna il tumulto è argomento tabù. Se ne ragiona molto sul
Web - l'agora di queste generazioni - ma poco sui giornali. C'è una
complicità tacita, che impedisce alla verità d'esser disvelata. Non ne parlano
gli imprenditori, che del lavoro precario o gratuito profittano; e neanche i
sindacati, tutori dei pensionati. Nella Cgil, il 53 per cento degli iscritti
aderisce al Sindacato dei pensionati italiani (Spi). Se la crisi dice qualcosa
- sulla crescita che nei paesi sviluppati s'abbasserà stabilmente, sul clima da
proteggere, sullo Stato impoverito - questo qualcosa dovrà implicare nuove
distribuzioni fiscali, e anche una mutazione di linguaggio. Riformismo, accordi
bipartisan: sono vocaboli inani, se usati solo per dissimulare tagli. Tutti
hanno rovinato l'istruzione, il patto bipartisan già esiste (da Luigi Berlinguer
a Mussi, Moratti, Gelmini). L'accordo non va cercato tra partiti ma tra l'Italia
che è nello Stato sociale e quella che ne cascherà fuori. Non di patti
bipartisan c'è bisogno, ma di dirigenti (politici, imprenditori, sindacati,
accademici) che queste cose le guardino in faccia.
Anche il popolo del disagio ha sue responsabilità. È un punto su cui Boldrin
insiste crudamente: "Cosa volete fare, ragazzi e ragazze? A favore di cosa siete
scesi in piazza, oltre che contro il ddl Gelmini? Perché è questa, non altra, la
questione che dovete avere il coraggio d'affrontare". Il risentimento è
comprensibile, ma il tema del merito sollevato dalla riforma resta. E che
significa rottamare un ceto politico, se non invocare palingenetiche facce
giovani? Perché difendere lo status quo universitario, finito in marasma? È come
desiderare la crescita squilibrata che nel 2007 causò la crisi economica nel
mondo.
Si disserta spesso in Italia della sindrome Peter Pan, che ti reclude nei
focolari paterni o materni: secondo l'Istat, il 68 per cento vive coi genitori
sino a 35 anni. Lo stesso succede in paesi cattolici dove la famiglia
sostituisce il Welfare: Spagna, Irlanda. Ma la vista psicologica è corta,
occulta le cause strutturali. Scrive Vincent Venus, direttore del Giovani
Federalisti Europei a Berlino, che questa è una generazione diversa: ricorda gli
anni '40. Non una conflagrazione militare le ha aperto gli occhi; ma la crisi
del lavoro, del pianeta, dell'economia, è un'esperienza interiore di guerra: "È
una sfida, quella odierna, che i nostri genitori hanno ignorato. Il compito è
talmente vasto che somiglia a quello della generazione postbellica. Unica
differenza: non si tratta solo di ricostruire la società, in Europa, ma di
mantenere in vita il Welfare". Pur rispettando i conti, oggi esistono cose da
preservare: la solidarietà sociale, il lavoro, il pianeta. La distruzione non è
più creativa.
Fu così anche nel 1942, quando il Welfare prese la forma di un piano comune di
lotta al bisogno: il piano di William Beveridge. "È proprio adesso, con la
guerra che tende a eliminare ogni genere di limitazioni e differenze, che si
presenta l'occasione. (...) Un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è
il momento più opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici
rattoppi" (Beveridge, La libertà solidale, Donzelli 2010).
Molti si domandano come mai il malcontento non sia esploso prima di Berlusconi,
visti gli errori della sinistra. Domanda sensata, ma vista parziale. Lo spirito
dei tempi modellato da Berlusconi e dalle sue Tv ha dilatato al contempo i
risentimenti dei dannati e lo sprezzo dei salvati, sostituendo lo Stato sociale
con la compassione o l'ignoranza. Alessandro Sallusti, direttore del Giornale,
ha detto in Tv: "Se un uomo a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol
dire che è un fallito". Nemmeno gli avversari del '68 usavano aggettivi simili.
Negli italiani è stata svegliata nell'ultimo decennio, e nutrita, ingigantita,
la parte peggiore. È come quando, nel febbraio 1932, il socialdemocratico Kurt
Schumacher denunciò l'attacco di Goebbels ai socialdemocratici-partito dei
disertori: "Tutta la propaganda nazionalsocialista è un costante appello alla
brutta canaglia interiore (Schweinehund) che abita ciascun uomo".