la Repubblica del 23.6.2010
A
POMIGLIANO prevale il sì all'accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua
direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda
pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l'accordo,
oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell'interesse
dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e
politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.
In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l'anno con 22.000 dipendenti. In
Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono
730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due
paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si
costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o
in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta
nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.
Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di
lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con
successo all'estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli
stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché
interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli
elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese
italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o
nelle
Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una
produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale
vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione
sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere
alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei
sindacati. Con l'applicazione totale del modello Fiat, le imprese si
sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione
delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da
salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei
lavoratori dei paesi emergenti.
Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare
testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione
come l'impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha
dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di
lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la
Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo
modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione
della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della
recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D'accordo che lavoratori
sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell'inflazione, pressoché fermi
da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato.
Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di
reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più
alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente
compreranno quattro o cinque Panda a testa.
Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo
alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della
produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che
disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una
corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in
altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all'ingiù che la qualità
della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si
sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori
che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro
degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima
ricetta politica. Alla quale un'impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi
particolari ingredienti.
Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede
nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione
repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l'art. 41
della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i
programmi e i controlli opportuni affinché l'attività economica possa essere
indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni,
potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano,
chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze
costituzionali, i nemici di quell'articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio.
Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l'art. 36, secondo il
quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in
ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un'esistenza libera e
dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E
magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti
economici.
Portare a Pomigliano il grosso dell'organizzazione del lavoro vigente in Polonia
sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei
consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non
esagerare con le richieste trancianti