I due partiti di una persona sola

di ILVO DIAMANTI

la Repubblica del 2.8. 2010

Il premier non può accettare il dissenso, le correnti, le divisioni. Dentro il "suo" partito. Il senso della rottura con Fini sta tutto in questo problema. L'impossibilità, per Berlusconi, di affrontare un confronto fra posizioni diverse (dalle sue) dentro il (suo) partito. E  -  con l'eccezione della Lega  -  anche dentro alla "sua" maggioranza. Il premier, il leader del primo partito italiano lo ha ripetuto spesso, negli ultimi mesi, con crescente frequenza e fastidio. Chi non si adegua alle sue scelte se ne deve andare. Gianfranco Fini, insieme ai suoi fedeli, peraltro, non ha fatto molto per evitare il conflitto.

Semmai, il contrario. Difficile sorprendersi, allora, della frattura avvenuta negli ultimi giorni. Largamente annunciata e perfino cercata. Comunque, inevitabile, vista la genesi del partito, Forza Italia (rinominata Pdl, dopo l'annessione di An). Un'invenzione di Silvio Berlusconi. Un "partito personale" (per evocare una nota definizione di Mauro Calise), creato come (e da) un'azienda. "All'italiana". Cioè: a base familiare e personale. Un'azienda e allo stesso tempo un prodotto, da vendere sul mercato elettorale. Berlusconi ne ha affidato la gestione ai suoi esperti, ai suoi consulenti legali e fiscali. Ai suoi specialisti di marketing e comunicazione. Tutti al suo servizio. Un partito "personale" con una base elettorale di massa, per quanto instabile. Un PMM  -  Partito Mediale di Massa. Che, al posto dell'organizzazione, della partecipazione e dell'ideologia, usa il management aziendale, i media e il marketing. Centralizzato come pochi altri.

Il paragone con il "centralismo democratico" del Pci, però, non regge. Perché il Pci aveva un'organizzazione forte, meccanismi di reclutamento e di selezione della classe dirigente rigidi, ma efficienti. Una leadership centralizzata, ma non "personale". Poi aveva una ideologia. Il dibattito politico, le correnti: esistevano. Solo che non erano espliciti e, comunque, alla fine si riallineavano. (Con qualche importante eccezione, come nel caso del Manifesto, nel 1968.)

Dentro Forza Italia e il Pdl, invece, tutto ciò non è possibile. Perché l'origine e il (la) fine del partito coincidono con una persona. Lui. Contestarlo, peggio, prenderne le distanze, significa (va) semplicemente aggredire l'albero alle radici, la casa alle fondamenta. D'altronde, un'azienda "personale" non può sopravvivere quando se ne mette in discussione la guida "personale". L'azienda non è un organismo democratico. La sua arena è il mercato. Che non è democratico. Forza Italia, però, è "anche" un partito. Agisce nell'arena elettorale, dove, per vincere, occorre prendere più voti degli avversari. Se non da soli, insieme ad altri. Così ha dovuto allearsi. Dal 1994 in poi: con An, la Lega, i neo-democristiani. E altre formazioni minori. Lui, afflitto dalla "sindrome del padrone" (la definizione è di Edmondo Berselli), incapace di pensare in termini istituzionali, "pubblici" (per citare Carlo Fusaro): ha vissuto con crescente insofferenza la necessità di confrontarsi con "altri poteri", non elettivi ma "costitutivi" della democrazia. Il Presidente, i magistrati, la Corte Costituzionale. E con quelli eletti: gli avversari e, peggio, gli alleati politici. Così ha trascorso gli ultimi 16 anni a combattere. Contro le istituzioni di controllo, che pretendevano di ribaltare la "volontà del popolo". Contro gli alleati che osavano sfidarne la leadership, costretti ad andarsene oppure "licenziati". È successo a Follini, nel 2006. A Casini, nel 2007. E  -  nei giorni scorsi  -  a Fini. Casini e Fini: convinti di succedergli, un giorno. Senza considerare che, in Italia, gli imprenditori si riproducono per via familiare. E trascurando il fatto che il premier si ritiene eterno.

Per ridurre, almeno, la complessità interna al suo campo, Berlusconi, negli ultimi anni, ha lanciato un'Opa su An e l'Udc. Quest'ultima, che pretendeva di restare autonoma, è stata espulsa dall'orbita di Berlusconi. An è stata assorbita. Fini, per questo, non era neppure un socio di minoranza. Al massimo, un dirigente aziendale. L'unico soggetto ad aver mantenuto autonomia e identità, in questo gioco, è la Lega. Non a caso. Non solo perché il suo radicamento territoriale nel Nord rende molto rischioso sfidarla. (Berlusconi l'ha sperimentato a proprie spese nel 1996.) È che la Lega, per quanto sostanzialmente diversa da FI (pardon: il Pdl), è, anch'essa, un partito personale. Dove la leadership di Bossi è indiscutibile, non esistono correnti né dissensi personali, da oltre 15 anni. La Lega. Un partito dinastico, se non imprenditoriale. In caso di successione, Bossi ha già espresso la sua preferenza per il figlio Renzo. Berlusconi, dunque, riconosce l'autonomia della Lega perché non può fare altrimenti. E perché è un partito personale, come il "suo" Pdl. Per decidere gli basta andare a cena con Bossi, una volta alla settimana.

Se questo è il modello di partito dominante espresso dai partiti dominanti  -  ed esemplari  -  della nostra democrazia, allora diventa difficile eludere un quesito. Anzi, "il" quesito (posto, peraltro, ieri da Eugenio Scalfari). Quale democrazia? Dove il dissenso è insostenibile, la selezione della classe dirigente dettata dall'obbedienza assoluta. Quale democrazia? Dove i congressi (meglio, le convention) si celebrano solo per annettere altri partiti. Dove i canali di comunicazione sono "controllati" da un solo e unico leader  -  di impresa, partito e di impresa-partito. Dove le istituzioni di garanzia sono considerate nemiche. Quale democrazia? Ci rendiamo conto che la questione non riguarda solo il Pdl e la Lega, modelli di successo imitati dagli altri partiti (con minore successo). Ma questo non ci rassicura. Al contrario. Perché riteniamo sia difficile edificare la democrazia su attori politici  -  i partiti  -  che la escludano al proprio interno.

Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, ha parlato di "anomalia berlusconiana" ("oggi fattore, più che altro, di instabilità"). Ma noi abbiamo il dubbio che l'anomalia, nella concezione di Berlusconi, sia proprio la democrazia