Intimidazione alle donne
di Letizia Tomassone
“Riforma” - sett. delle Chiese Evangeliche Battiste Metodiste e Valdesi - del 9 aprile 2010
Appena essere stati eletti, i governatori leghisti
di Piemonte e Veneto hanno voluto mostrare la loro lealtà a una chiesa
cattolica che, nella tempesta mediatica per la copertura di crimini pedofili,
continua a tener fermi dei princìpi teorici a scapito delle esistenze delle
donne, dei bambini, dei laici. Mentre perfino il ministro della Sanità ha
dovuto smentire il fatto che la pillola RU486 possa essere sottratta all’uso
negli ospedali, il papa ha pubblicamente elogiato chi «disobbedisce alle leggi
ingiuste». Sia i governatori sia il papa spendono le loro energie per
intimidire le donne. Questa cultura cattolica non sopporta che la sessualità
sia un luogo di libera scelta. La circondano di ombre di colpa e punizione. Così
ancora oggi l’aborto deve essere accompagnato dalla sofferenza medica, dalla
costrizione all’intervento chirurgico o dalla protratta degenza ospedaliera.
L’aborto nell’immaginario di questo potere religioso è una situazione nella
quale la donna scompare, lei e la sua scelta di vivere libere relazioni
sessuali, lei e la sua scelta di decidere se portare avanti o meno una
gravidanza indesiderata.
Negli anni passati come protestanti ci siamo
battuti perché la legge 194 venisse prima approvata e poi mantenuta. Abbiamo
sempre cercato di dare spazio e voce alle donne che devono affrontare il dramma
di un’interruzione di gravidanza, ferita dell’anima, dice qualcuno. Non
vorrei che perdessimo di vista il punto che c’è libertà di coscienza, non
solo per «disobbedire alle leggi ingiuste», come afferma il papa, ma
soprattutto per decidere come condurre la propria vita. Vorrei che ricordassimo
che la sessualità non è una cosa da tenere segreta e di cui vergognarsi, ma
una gioia della vita, e che i più giovani e le più giovani devono imparare ad
abitarla con sicurezza.
Intimidire le donne e la loro libertà di scelta è
un esercizio di sempre della morale cattolica. Trovo grave che venga invocata la
disobbedienza civile non rispetto all’uso della violenza nelle guerre degli
stati occidentali, non rispetto a politiche istituzionali xenofobe e razziste,
ma di fronte a donne a cui lo stato italiano riconosce (ancora) la libertà di
scelta. La disobbedienza alle leggi ingiuste ha una lunga storia: dalle
suffragiste che si incatenavano e facevano lo sciopero della fame per ottenere
il suffragio universale, all’obiezione di coscienza alla leva obbligatoria o
alle spese militari sulla propria cartella dei redditi. Anche la disobbedienza
alle leggi razziali durante il fascismo e il nazismo ha portato tante persone a
rischiare pur di salvare altri, sconosciuti ma accomunati dalla stessa umanità.
I neri del movimento di Martin Luther King per più di un anno non hanno preso
l’autobus e sono andati al lavoro a piedi, per contrastare l’apartheid.
Ciò che ha caratterizzato la disobbedienza civile
finora è stato il suo uso da parte di chi non ha potere, per ottenere una
società più libera per tutti. Una disobbedienza che restringe le libertà
invece di ampliarle si mette invece al servizio di una società clericale.
Cercare leggi più giuste è invece proprio sostenere leggi che consentano la
libertà e la responsabilità personale e tutelino i più deboli.