La buona democrazia e il pericolo delle oligarchie
di Gustavo Zagrebelsky
“la Repubblica” del 17 giugno 2010
Nel nostro Paese chi distingue la cattiva democrazia dalla
buona incappa solitamente in un interdetto: se critichi la democrazia è perché
non sei democratico o non lo sei abbastanza, non accetti il responso delle urne,
vuoi «delegittimare» chi ha vinto le elezioni. Vorresti che le cose andassero
altrimenti da come le vedi tu; che la maggioranza seguisse le tue, non le sue,
idee. Tu dici e pensi questo e quello, ma la maggioranza fa tutt´altro. Non te
ne dai pace e, invece d´adeguarti in nome del popolo, ti ostini, in nome di non
si sa quale altro principio o diritto, anzi in nome della tua presunzione, a non
riconoscere d´avere torto.
osì, sei non lealmente democratico, ma subdolamente aristocratico, perché
pensi tu d´avere, solo o con i tuoi (pochi) amici, la verità in tasca. Non
capisci d´essere fuori della storia, uno sconfitto che avrebbe solo il dovere
di tacere, mettersi da parte e lasciare il passo ai tempi che avanzano, alla
storia che si realizza. In breve: cosciente o non cosciente, sei un «azionista»,
tra tutti i giudizi politici di condanna, il più infamante e «condiviso».
Molto più di ladro, corrotto e corruttore, incapace e incompetente,
voltagabbana e servo del potente (...).
La democrazia come unica forma di regime legittimo, ha vinto la sua battaglia o,
almeno, sembra averla vinta. Pare non avere più rivali (...). Oggi, con la sola
eccezione dei regimi dichiaratamente teocratici, dove la secolarizzazione non è
penetrata ed è anzi combattuta (come accade in talune repubbliche islamiche),
si presenta come l´unica forma di convivenza accettabile, dunque legittima. Ciò
non solo nel mondo occidentale, dove maggiormente si è sviluppata, ma nel mondo
intero, ed è proposta come valore universale dell´umanità. Talora gli intenti
sono eccellenti, ma qualche volta anche criminali (come quando la si usa come
pretesto per l´uso delle armi, al fine di «esportarla») (...).
Ci si può chiedere la ragione di tanta fortuna e la ragione, alquanto
allarmante, è che democrazia è parola mimetica e promiscua. Con un manto di
nobiltà avvolge i governanti, ma questo manto può nascondere le cose più
diverse. Con l´ideologia democratica si possono nobilitare le più diverse
realtà del potere. Nel tempo del potere secolarizzato, la democrazia è il solo
regime che può presentarsi come l´organizzazione di un potere disinteressato.
I governanti si concepiscono come mandatari o rappresentanti o benefattori del
popolo. Il loro potere è in nome, per conto, nell´interesse altrui. Possono
dire di «servire il popolo», cioè di fare ciò che fanno non per il piacer
proprio, ma per il bene di tanti o di tutti. Nobile missione! Anche i governanti
per diritto divino sostenevano di agire in nome e per conto d´altri,
addirittura di Dio. Ma, una volta caduta questa premessa e posto il governo
degli uomini sulla terra, solo le democrazie (non certo le autocrazie di
qualsiasi genere) conferiscono ai governanti il diritto di proclamare ch´essi
non governano nel proprio interesse, ma per il bene di chi è governato. Questa,
l´ideologia. E la realtà? (...).
Il nodo da sciogliere, a questo punto, nasce dalla constatazione di questo
apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro
dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso
chi studia l´odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l´oggetto
e, spesso, le vittime. Per secoli, democrazia è stata la parola d´ordine degli
esclusi dal potere; ora sembra diventare l´ostentazione degli inclusi. Presso i
cittadini comuni, non c´è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni
politiche antidemocratiche. C´è piuttosto un accantonamento, un fastidio
diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia
che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio del
potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C´è,
in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Non c´è
bisogno di consultare la scienza politica per sentir risuonare sempre più
frequentemente questa semplice domanda, che è come un segnale d´allarme: «democrazia,
perché?». Quando si sente esclamare con fastidio: «tanto sono tutti uguali»
(quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la
democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano
semplicemente la vuota rappresentazione o l´occultamento di un potere dal quale
essi sono comunque esclusi? Una «teatrocrazia», è stato detto. L´esito potrà
essere l´astensione o l´adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un´abdicazione.
È questa la più immediata espressione di uno scetticismo a-democratico dal
basso che fa da pendant alla retorica democratica dall´alto. Se si pensa che,
storicamente, la democrazia è stata la rivendicazione della massa degli esclusi
dal potere, contro la chiusura su di sé dei potenti, c´è evidentemente da
registrare un capovolgimento paradossale.
Il paradosso si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della
democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue forme, si può
comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è
il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere
oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un´efficace
maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel
presente. La storia ci dice che la democrazia può dissimulare l´anti-democrazia
(...).
Realisticamente, dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i
conti con la sua naturale tendenza all´oligarchia, anzi con la «ferrea legge
delle oligarchie»: una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da
ragioni interne ineliminabili (...). Questa «ferrea legge» si basa sulla
constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l´uguaglianza, cioè
il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata
proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia
immediata, senza delega, ha bisogno di piccoli numeri, di ristrette oligarchie.
Non basta. Poiché questa è una patente contraddizione rispetto ai principi,
occorre che queste oligarchie siano occulte e che queste, a loro volta,
occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La
democrazia allora si dimostra così essere il regime dell´illusione. Il più
benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il «principio
maggioritario», che è l´essenza della democrazia, si rovescia infatti nel «principio
minoritario», che è l´essenza dell´autocrazia: un´autocrazia che si
appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un´autocrazia e, per questo, più
pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone
che si appoggiano solo su se stesse (...).
Le oligarchie, nelle odierne società, non si costruiscono su piani paralleli, l´uno
sopra l´altro. L´immagine che mi pare più appropriata è quella del «giro»
di potere. Intendo con questa espressione - il giro - esattamente ciò che
vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e
dai meriti incerti, o dai demeriti certi e dalle carriere improbabili, i quali
vengono a occupare posti difficilmente concepibili per loro, ci domandiamo: a
che giro appartengono? Una delle grandi divisioni della nostra società è forse
proprio questa: tra chi «ha giro», e chi non ce l´ha. Divisione profonda,
fatta di carriere, status personali, invidie e risentimenti che avvelenano i
rapporti e corrompono i legami sociali, ma che, finché dura, è una vera e
propria struttura costituzionale materiale.
Nei «giri» si scambiano protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo
scambio ha bisogno di «materia». Occorre disporre di risorse da distribuire
come favori, per esempio: danaro facile e impieghi (Cimone e Pericle insegnano),
carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall´altra parte,
qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»),
all´organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per
ragioni di corporazione, di corruzione, di criminalità; dalla disponibilità a
corrispondere al favore ricevuto con controprestazioni, personali o per
interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto. L´asettico «giro»
in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta (...).
Quando poi nello scambio e nell´intreccio di favori, minacce e ricatti entrano
anche organizzazioni criminali, non è esclusa nemmeno la violenza. Non pochi
delitti politici nel violento nostro Paese non si spiegano forse con l´essere
venuti meno a un patto di scambio?
Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell´illegalità.
Essi tanto più si diffondono quanto maggiori sono le disuguaglianze sociali e
quanto meno le stesse leggi valgono ugualmente per tutti (...). Come si
proteggono i «giri»? Prima di tutto con la copertura e la segretezza. Questa
struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva
(...). Questo è il carattere nostrano odierno del sistema oligarchico: catene
verticali, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini
della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle
gerarchie ecclesiastiche, dell´economia e della finanza, dell´università,
della cultura, dello spettacolo, dell´innumerevole pletora di enti, consigli,
centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere
reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del
potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità.
Se la cattiva democrazia è quella che si è involuta in oligarchie (...),
allora per contrasto possiamo definire «buona» la democrazia dove vigono
queste due virtù pubbliche: l´amore per l´uguaglianza sotto la legge comune,
unito al disprezzo per arrivisti e faccendieri, e la sete di verità circa le
cose comuni (...). Con questo passaggio, l´attenzione si è spostata dalla
democrazia come forma o regola della politica alla democrazia come carattere
degli esseri umani. In effetti, noi possiamo riferirci alla democrazia come
tecnica del potere (che, come tutte le tecniche del potere, contiene comunque in
sé qualcosa di minaccioso) e come concezione del vivere comune. Il limite della
maggior parte dei discorsi attuali sulla democrazia sta nell´avere separato
questi due aspetti e nell´avere oscurato il secondo che, invece, è il più
importante, perché preliminare e condizionante. Se viene meno la democrazia
come esigenza dello spirito pubblico, essa, in quanto regime politico, si può
perfino suicidare «democraticamente» (...).
Poiché nessuna tecnica d´organizzazione democratica del potere può funzionare
se non si appoggia su società che sono esse stesse, e prima di tutto,
democratiche, si comprende che è lì la garanzia ultima e nessuna istituzione,
da sola, è capace di difendere la democrazia se i più non la vogliono o non ne
sono interessati. Le istituzioni, pur tuttavia, sono importanti (...). Il
significato profondo delle istituzioni democratiche è tutto in questo: il
medesimo obbiettivo - la lotta contro le oligarchie - ma con mezzi ordinari.
Quali esse siano queste istituzioni è chiaro: quelle della legalità e della
trasparenza; la sovranità della legge e la libertà delle opinioni; le
magistrature e l´informazione. Senza di queste, nemmeno il diritto di voto, il
diritto primordiale di ogni forma di democrazia, sarebbe dotato di senso
democratico, perché non sarebbe permessa l´onesta misurazione del consenso e
del dissenso.
La democrazia non è dunque possibile in società non democratiche, ancorché
adottino le forme esteriori della democrazia. La società democratica è
preliminare alla politica democratica. Si deve, allora, promuovere una pedagogia
orientata a promuovere l´ethos della democrazia? Platone risponderebbe senza
esitazione di sì: «Lo sai che inevitabilmente fra gli individui vi sono tanti
tipi quante sono le forme di governo? Credi forse che esse spuntino da una
quercia o da una pietra, anziché dal carattere (ethos) dei cittadini, che le
trascinano dalla parte verso cui essi stessi pendono?». In effetti, da molti
decenni un´autentica pedagogia democratica è mancata (...).
Nel momento della massima diffusione della democrazia - si potrebbe dire: nel
momento della sua vittoria su ogni altro sistema di governo -, cioè nel momento
dell´indifferenza per assenza di alternative, sembra essere venuta meno l´esigenza
di insegnarne lo spirito. La democrazia si è sempre accompagnata alla
diffusione dell´istruzione e della cultura, cioè alla liberazione dall´ignoranza
e dall´analfabetismo. Ma una specifica educazione dalla democrazia?
In effetti, una posizione negativa si giustifica in base alla doppia idea che la
democrazia, per essere davvero tale, deve essere il «regime dell´uomo così
com´è» e che ogni pedagogia o educazione imposta per cambiarlo «eticamente»
- fosse anche per adeguarlo alla democrazia stessa, per creare «l´uomo nuovo»
- si risolverebbe in una pratica contraria ai principi della democrazia stessa.
Ma «l´uomo così com´è» non è affatto quello che è adatto alla democrazia
(...). Sotto certi aspetti, la democrazia è un regime politico innaturale, cioè
fortemente legato a premesse culturali che devono essere alimentate: chiede
sacrifici, rinunce e dedizione personali, in vista di qualcosa di comune, al di
là del raggio degli interessi personali. Non è affatto solo una tecnica -
certe volte migliore e altre peggiore di altre - per la protezione degli
individui e dei loro interessi. È una forma di convivenza che ha a che vedere
con l´etica repubblicana, con la res publica, cioè con una dimensione della
vita che, per essere di tutti, non deve diventare patrimonio di nessuno. Per
questo, essa è sempre a rischio e noi conosciamo bene che cosa siano state e
che cosa possano sempre essere la «servitù volontaria» e la spontanea
rinuncia alla libertà per il prevalere di interessi particolari.
Allora? Come conciliare gli opposti: l´inaccettabilità e, al tempo stesso, la
necessità di un´educazione democratica? In un solo modo: dicendo che questo
compito è essenziale, ma non è dell´autorità. Esso è rimesso alla libertà.
Non spetta allo Stato di svolgerlo, ma alla società. Rientra cioè nella
responsabilità di ciascuno di noi, quando entra in relazione con gli altri, là
dove la democrazia è atteggiamento etico che può essere diffusivo di se
stesso, nel rispetto dell´autonomia degli altri (...). La democrazia, poiché
non può invocare rassicurazioni metafisiche, può basarsi solo su se stessa,
cioè sui suoi cittadini. Si regge o cade per virtù o vizi loro. Ma proprio per
questo, quanti amano la democrazia sapendo che prima e dopo di essa c´è solo
qualche forma di autocrazia, c´è cioè la perdita della libertà, devono
raddoppiare gli sforzi per difenderla ed espanderla nella coscienza di quanti più
è possibile.
Il testo è tratto dall´intervento che Gustavo Zagrebelsky ha svolto il 17
giugno 2010 sul tema «Si può dire che la democrazia italiana è malata? Può
esistere una cattiva democrazia?», a Lucca, nell’ambito del progetto «Un
patto per la qualità della convivenza» promosso dalla Provincia e dalla Scuola
per la Pace