La grande disillusione
di Barbara Spinelli
“La Stampa” del 30 maggio 2010
A prima vista, si direbbe che due siano ormai le visioni della
crisi divampata nel 2007, e dei modi di sormontarla in Italia. Da una parte c’è
il film proiettato dal presidente del Consiglio per anni: la crisi è un
fulmine, che non turba il cielo sereno sopra le nostre teste. La chiamano crisi,
ma non è tale. Sono i giornali, le istituzioni internazionali, ad angosciarci
con le loro aritmetiche cupe. Dovrebbero tacere, lasciar fare i governi. Ben
diversa la visione di Tremonti, che usa metafore tutt’altro che confortanti:
«La situazione non è bella. Siamo alpinisti aggrappati a una parete verticale,
non possiamo traccheggiare». Tremonti vede il disastro ma anch’egli proietta
un suo film, quando paragona il marasma a un videogioco. Sullo schermo irrompe
un mostro, dal nulla: o lo uccidi o perisci. Non c’è sguardo lungo. Abbatti
l’orco, e passi al successivo. Non c’è tempo per traccheggiare ma neppure,
molto, per pensare. Inoltre il videogame puoi spegnerlo.
Così muore il reality show che Berlusconi manda in onda sin da principio: un
mondo finto, chiuso. Una sorta di quartiere sigillato, inaccessibile alle
ambasce delle metropoli, simile a Milano-2 costruita negli Anni 70.
In America i quartieri sono chiamati gated community, comunità corazzate da
grossi cancelli, che proteggono da incursioni esterne e spesso sono dotate di
circuiti televisivi stile Mediaset o Tg1, dispensatori di distrazioni. Il
reality non dice il reale; lo fa. La negazione della crisi, fino all’allarme
di Tremonti, è stata un ingrediente base del film berlusconiano. Anche la
negazione dei mostri nascosti (mafia, suoi patti con l’anti-Stato) è
ingrediente di rilievo.
Per questo non è appropriato parlare, a proposito della manovra, di sacrifici.
Quello che urge da noi non sono sacrifici, ma un’autentica disintossicazione,
unita a non meno urgenti operazioni verità sulla democrazia minacciata. Si
tratta di uscire dallo show, di entrare nella realtà, di vederla. Si tratta di
rompere con gli usi e costumi vigenti dietro le comunità transennate: il vivere
alla giornata, il non guardare lontano, il non voler sapere la verità sullo
Stato e su se stessi. Il compito affidatoci è una gigantesca disillusione, più
che una rinuncia ai beni che avevamo. Il disilluso possedeva vizi, oltre che
beni: volontariamente scelse d’illudersi. Anche Manovra è parola sciapa, che
implica un guidatore e masse di guidati. Meglio parlare di un comune, benefico
risvegliarsi.
In fondo l’esperienza è simile a quella traversata dal cattolicesimo, dopo lo
scandalo della pedofilia. Il clero ha coperto reati atroci, e ora s’accinge a
punirli. Ma il compito del risanamento spetta all’intera Chiesa, e la Chiesa
non si riduce alla gerarchia: per definizione, è il popolo riunito dei fedeli.
Lo spiega magistralmente, sul sito del Regno, il vicedirettore della rivista
Gianfranco Brunelli. Perché l’istituzione riacquisti credibilità, deve
pensarsi come parte del popolo di Dio, incorporare le vittime, parlare con loro
più che a loro: non c’è esclusivamente il clero, da curare. Guarire
significa concepire la Chiesa «non solo come istituzione ma come popolo di Dio»:
giacché «Dio è delle vittime. Dio è nelle vittime. Là egli si è fatto
sentire. Là la Chiesa lo può vedere in maniera privilegiata, poiché là
sempre egli manifesta il suo Spirito (Matteo 25)».
Da secoli la Chiesa ispira regni e repubbliche, e oggi come ieri la teologia
aiuta a capire, soprattutto in democrazia, il farsi della politica. Lo squasso
economico mette quest’ultima a dura prova, e il rimedio anche qui non consiste
nel salvare gerarchie e caste ma l’intero popolo della politica: composto di
governati e governanti, fondato su sofisticati equilibri fra vari poteri che si
bilanciano.
L’Italia economicamente sta meglio della Grecia (grazie al governo Prodi,
essenzialmente), ma in molte cose i Paesi si somigliano. Atene è precipitata
perché una classe di governanti, per anni, proiettò chimere: visse senza
guardar lontano, fino a truccare - in casa, in Europa - le cifre del proprio
bilancio. Lo fece per immunizzare caste, politici. Non pensò (qui è la
somiglianza) che in custodia aveva tutto il popolo della politica, e in primis i
poveri, le vittime, i contribuenti che pagano per gli evasori, i meno
organizzati e garantiti. Epifani che annuncia scioperi anti-manovra ha
comportamenti immodesti e suicidi: cos’ha dato il sindacato agli italiani,
quando bocciò la vendita di Alitalia a Air France, se non più licenziati e
fardelli più grevi sulle spalle dei contribuenti?
Degli aspetti tecnici della manovra si sa poco, ma ci sono elementi che fanno
impressione: alcune misure sono spudoratamente copiate dal governo Prodi,
abbattuto due anni fa. Restano memorabili gli insulti a Visco, stratega
agguerrito dell’anti-evasione: fu dipinto come vampiro, nei videogame
dell’attuale maggioranza. Ora le sue misure (tracciabilità dei redditi) sono
riesumate, e Tremonti non può dar torto a quel che Visco scrive sul sito della
Voce: «Se si ritiene che la riduzione dell’evasione sia utile, andrebbero
reintrodotte integralmente le misure varate dal governo Prodi e subito abrogate
dal governo Berlusconi».
Ma le similitudini tra Grecia e Italia sono innanzitutto politiche. In ambedue i
casi, il rigore riesce a due condizioni: se la tecnica è buona, e se la
democrazia ha le virtù raccomandate dall’Ocse alla finanza: correttezza,
integrità, trasparenza. Per imporre rigore, infatti, i governi devono avere la
legittimità etica di chi non tratta il «popolo della politica» come mezzo, ma
come fine.
Sulla prima condizione si può sospendere il giudizio. Ma la seconda condizione
di sicuro in Italia manca. Questo è un governo che ha passato più tempo a
proteggere premier e politici dai processi, che a far politica per gli italiani.
Questo è un governo cui l’ex presidente Ciampi chiede solennemente la verità
sui pericoli corsi dalla democrazia nelle stragi inaugurate dall’eccidio di
Falcone e Borsellino (Repubblica, 29 maggio). Questi sono giorni in cui il
partito fondato da Berlusconi è sospettato di un patto con la mafia, che dopo
Tangentopoli avrebbe convogliato su Forza Italia i voti di vaste aree del Sud in
cambio di favori e promesse.
La crisi, come a Atene, disvela i trucchi ottimisti del film berlusconiano ma
anche i suoi scantinati tenebrosi. L’evento fondamentale dei giorni scorsi è
stato il discorso di Piero Grasso, mercoledì a Firenze nella commemorazione
della strage dei Georgofili. Il procuratore nazionale antimafia non cita
Berlusconi e Dell’Utri - non ha le prove - ma dice cose gravi: «Cosa nostra
ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», e le stragi
del ’92-93 volevano causare disordine per dare «la possibilità a un’entità
esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera
situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di
Tangentopoli. Certamente Cosa Nostra, attraverso questo programma di azioni
criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità
sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà
politiche che potessero poi esaudire le sue richieste». Grasso in genere è
uomo prudente. Nel ’98, con altri magistrati, archiviò l’inchiesta su
Berlusconi e Dell’Utri ritenuti mandanti occulti del terrore mafioso.
Il procuratore disse queste verità già allora. Per motivi non chiari, il
verbale rimase però nascosto. Lo dissotterrano Lo Bianco e Sandra Rizza, in un
libro che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere («L’agenda nera»). Se
Grasso torna a parlarne oggi è perché ha deciso di abbandonare le autocensure.
In parte perché nuovi pentiti testimoniano. In parte perché, grazie alla
crisi, il Truman Show berlusconiano si sfalda. Può darsi che la bolla
sopravviva un po’, come nel film di Peter Weir. Ma il «popolo della politica»
difficilmente si farà persuadere ancora da miraggi e occultamenti
dell’incantatore di Palazzo Grazioli. Questo non è tempo di mostri che
irrompono nel videogame. Ci sono mostri da stanare, non visibili perché non
programmati per esserlo. È vero: «La situazione non è bella». Che diventi,
almeno, vera.