Libera Chiesa, in catene di Stato
di Riccardo Chiaberge
“il Fatto Quotidiano” del 18 dicembre 2010
Corsi e ricorsi dell’onomastica: si chiamava Gasparri, ma non sedeva in Senato e
vestiva la porpora del Segretario di Stato vaticano, l’uomo che nel 1923 aiutò
Mussolini a far fuori uno dei suoi avversari più temibili, l’odiato don Sturzo.
Il leader dei Popolari era passato all’opposizione e avrebbe votato contro la
famigerata legge Acerbo che aboliva la proporzionale istituendo un premio di
maggioranza su misura per le ambizioni totalitarie del fascismo. Ma il 10
luglio, senza preavviso, lasciò la guida del suo partito. Secondo il cardinale
questo abbandono era un espresso desiderio del Santo Padre, il quale riteneva
che “nelle attuali circostanze in Italia, un sacerdote non può, senza grave
danno per la Chiesa, restare alla direzione di un partito, anzi dell’opposizione
di tutti i partiti avversi al governo, auspice la massoneria come ormai è
risaputo”.
Pochi giorni prima, dai muri di Roma, il manifesto di una nuova organizzazione
cattolica aveva invitato i fedeli a dare pieno sostegno alle camicie nere, in
nome di “quei valori religiosi e sociali che costituiscono la base d’ogni sano
reggimento politico” e a combattere le forze antinazionali contrarie a “un
durevole ordine sociale cristiano e italiano”. L’avrete notato anche voi, lo
stile ricorda in modo impressionante i sermoni di Bagnasco o di Bertone: non
diversi gli accenti accorati sulla necessità di superare lo scontro, identico
l’appello alla pacifica convivenza e al “bene supremo dell’Italia”. In realtà,
scrive lo storico Emilio Gentile nel suo nuovo libro, Contro Cesare.
Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi (Feltrinelli, pagg. 442,
euro 25), il desiderio del Santo Padre corrispondeva a quello del duce, che
“aveva minacciato rappresaglie contro le associazioni cattoliche e il clero se
la Chiesa non fosse intervenuta a togliere dalla politica il sacerdote
siciliano”. L’uscita di scena di Sturzo accelerò la disgregazione interna del
Partito popolare, la cui ala più conservatrice si affrettò a correre in soccorso
del vincitore.
A dispetto del suo cognome, Gentile non è prodigo di gentilezze nei riguardi del
Vaticano: “La costruzione del regime fascista, tra il 1925 e il 1929 – accusa –
non incontrò alcuna resistenza da parte della Chiesa di Roma. La Santa Sede
assistette da spettatrice silenziosa, ma evidentemente compiaciuta, alla
distruzione delle libertà civili e politiche della democrazia parlamentare,
rivendicando per sé unicamente l’esercizio della libertà religiosa, in ciò
coerente con la dottrina che considerava la libertà di coscienza e le altre
libertà politiche e civili il portato diabolico dell’apostasia moderna”. Quando
la dittatura, nel maggio 1928, decide la soppressione di tutte le organizzazioni
giovanili che non facevano capo all’Opera Nazionale Balilla, esclusa l’Azione
Cattolica, la stampa vicina alla Chiesa reagisce con manifestazioni di giubilo e
grandi “inchini e ringraziamenti alla magnanimità del duce”. Il parroco
anticonformista di un paese del mantovano, don Primo Mazzolari, annota nel suo
diario: “Oh, poi non è troppo? Dunque vivete per misericordia, per benigna e
sovrana concessione di lui? Non c’è più un diritto comune, una libertà comune da
rivendicare, entro cui agire, ma il beneplacito del tiranno, che vi ha
accantonati, come spazzatura, in attesa che passi per la strada il carretto
della nettezza urbana”.
Il vero cristiano, secondo don Primo, non deve cercare privilegi per sé ma
giustizia e libertà per tutti: “Rivendicare un posto per sé soltanto è venir
meno alla missione cattolica, senza contare che un privilegio, concesso e
accettato a queste condizioni, è piuttosto un capestro e una tremenda
responsabilità di fronte all’avvenire”.
La marcia su Roma era stata salutata con sollievo dalla gerarchia, impaurita dai
disordini sociali e dal rivoluzionarismo rosso. La bestia fascista, per quanto
manesca e brutale anche nei confronti delle organizzazioni cattoliche, sembrava
addomesticabile. Ai primi approcci di Mussolini per risolvere la questione
romana, nel 1923, papa Ratti manda a dire che il governo del duce “dura da un
anno, mentre la Chiesa conta per secoli”. E sei anni più tardi, poco dopo la
firma dei Patti Lateranensi, dichiarerà che “per salvare un’anima sarebbe
disposto anche a trattare col diavolo in persona”. Le anime, beninteso, vanno
salvate da quelle che Pio XI considera le minacce più gravi che incombono sulla
cristianità: il comunismo, “nemico dichiarato della Santa Chiesa e di Dio”, ma
anche la democrazia laica, figlia della Rivoluzione francese e della modernità.
E questo benché nei Palazzi apostolici siano in molti a chiedersi se
“l’idolatria statalista” di Giovanni Gentile e Alfredo Rocco non sia “una brace”
peggiore della “padella framassone e demoliberale”.
Più che Contro Cesare, il potente libro di Gentile, denso di retroscena e
documenti inediti, dovrebbe intitolarsi Pro Cesare. Come scrive il grande
studioso del fascismo, degno erede di De Felice, “all’inizio di un’era di
statolatria quale l’Europa non aveva mai conosciuto, neppure nell’epoca del
cesaropapismo romano o medievale o nell’era dell’assolutismo e del dispotismo,
la Chiesa si trovò schierata, per i privilegi che ne riceveva, con il regime
statolatra del nuovo Cesare in camicia nera e con altri dittatori suoi imitatori
o ammiratori”. Il Cesare totalitario del Novecento ha due volti: quello
comunista di Stalin che vuole sopprimere la Chiesa e instaurare l’ateismo di
stato, e il volto più ambiguo di Mussolini o di Hitler che tentano di asservire
la fede di Cristo mescolandola con la propria ideologia, trasformata in
religione politica. Ma i cattolici e i protestanti che, in Italia e in Germania,
mettono sullo stesso piano i due totalitarismi, giudicandoli entrambi antitetici
al messaggio cristiano, si contano sulla punta delle dita. Tra gli italiani, ai
nomi di Mazzolari e Sturzo possiamo aggiungere quelli di Giuseppe Donati e
Francesco Luigi Ferrari, morti in esilio a Parigi, e pochi altri. Comprensibile
la rabbia di uno studioso non certo ostile alla Chiesa, Arturo Carlo Jemolo:
“Con tutto ciò che da penne cattoliche è stato scritto contro il fascismo si
riempirebbe a stento uno scaffaletto di libreria; con quanto è stato scritto
nello stesso periodo contro il comunismo, una biblioteca”.
La lista dei capi di imputazione a carico della Santa Sede, secondo Gentile, è
molto lunga: le dimissioni e l’esilio di don Sturzo, l’opposizione a un fronte
antifascista dopo il delitto Matteotti, la sconfessione del Partito Popolare,
l’avallo silente al soffocamento della democrazia italiana, e infine gli accordi
del Laterano. Soltanto nel 1931, con l’enciclica Non abbiamo bisogno, e
soprattutto dopo le leggi razziali del ’38, papa Ratti comincia a prendere le
distanze dalla “statolatria pagana” di Mussolini e dai suoi crimini. Ma non
arriva mai a paragonare il fascismo al bolscevismo, che rappresenta per lui il
male assoluto.
Lascio agli storici colleghi e rivali di Gentile, ben più titolati di me, il
compito di confutare la sua ricostruzione, certo non tenera, a tratti perfino
ingenerosa nei confronti della Chiesa e di Pio XI. Mi limito a osservare che a
quei tempi, almeno, papi e vescovi avevano qualche fondato motivo per essere
prudenti. Adesso che non rischiano di finire in un lager o di essere
manganellati, recitano un Te Deum al giorno per il Cesare di Arcore, senza
nemmeno aspettare il Tartaglia di turno che gli tiri il duomo in faccia. Viene
da domandarsi cosa ci voglia ancora, perché i monsignori aprano finalmente gli
occhi e la bocca. Magari che Cesare rottami la Costituzione e trasformi il
Quirinale in un bordello? O sono pronti a barattare pure quello in cambio di uno
sconto sull’Ici e di qualche aiutino alle scuole cattoliche?