Mafia e preti, un libro di
Isaia Sales racconta come siano «vicini»
di Massimiliano Amato
in “l’Unità” del 4 marzo 2010
«Non si smette mai di essere preti. Né
mafiosi», ripeteva spesso Giovanni Falcone, sottolineando come lo specifico
criminale che da un secolo e mezzo marchia a fuoco la vita, l’economia e la
società di quattro regioni italiane sia in realtà una religione, che dal
cattolicesimo prende in prestito i riti, il linguaggio, l’espressività
liturgica. E tuttavia, il legame non è fatto solo di simboli: Cosa Nostra si
richiama ai Beati Paoli, la camorra alla Guarduna, confraternita esistente a
Toledo sin dal XV secolo, la ‘ndrangheta ai tre arcangeli della tradizione.
No, c’è di più, qualcosa che va oltre la sintassi dell’esteriorità, nel
rapporto, mai investigato a sufficienza, tra Chiesa e grandi organizzazioni
criminali.
Nel suo documentatissimo «I preti e i
mafiosi», Isaia Sales, tra i più lucidi studiosi dei fenomeni mafiosi, docente
di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia al Suor
Orsola Benincasa di Napoli, mette subito le cose in chiaro. Innanzitutto,
sostiene Sales, c’è una gravissima condotta omissiva, addebitabile ad un «giusnaturalismo
di sangue», che la cultura cattolica mutua da quella mafiosa (e viceversa:
l’esistenza di altre Giustizie oltre a quella dei Tribunali) in opposizione al
positivismo del diritto statuale. La Chiesa, è la tesi di fondo del libro, non
ha mai alzato un argine – né dottrinale, né teologico, né morale – contro
il proliferare delle mafie. Ne ha anzi tollerato (quando non fiancheggiato) il
radicamento, concimandolo talvolta con una sconcertante sin
La carica antistatuale della Chiesa e quella
delle organizzazioni criminali hanno finito spesso col convergere. Al punto che
dal martirologio cristiano sono espunti gli eroismi, in nome della fede e di un
credo fondato sull’anti-violenza (l’esatto opposto, in teoria, dell’ethos
mafioso), di decine di preti uccisi dalle mafie, di cui poco o punto si sa. Solo
recentemente, con i sacrifici di don Pino Puglisi, fatto ammazzare come un cane
a Brancaccio dai fratelli Graviano, e di don Peppe Diana, eliminato a Casal di
Principe dai sicari di Sandokan, è emersa una coscienza nuova, tuttavia
confinata a pochi casi isolati di preti –
coraggio. Le eccezioni. E così, nel paese degli atei devoti, l’archetipo
mafioso è quello del fervido credente criminale efferato, che si fa il segno
della croce prima di ordinare un omicidio o di premere il grilletto: i covi dei
superlatitanti sono sempre zeppi di immagini e testi sacri, dalla Bibbia al
Vangelo, i boss vengono maritati in chiesa, confessati, comunicati e, se muoiono
nel loro letto, ricevono l’estrema unzione. La parte più suggestiva del
saggio è quella in cui Sales ipotizza, non senza riferimenti «alti», una
sorta di «complementarietà»
tra il fenomeno mafioso e l’affermazione
di alcuni precetti cristiani: dalla teoria della Confessione di Sant’Alfonso,
a quella del criminale pecorella smarrita, un filo sottile tiene insieme il
comportamento deviante e l’esigenza cattolica della «redenzione», in cui il
valore della dissociazione prevale su quello del pentimento. Anche in questo
caso, i due antiStato s’incontrano