MAGISTERO ECCLESIASTICO E VANGELO

Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.

di Elio Rindone

gennaio 2010

chi è Elio RINDONE


Che si parli di unioni di fatto o di testamento biologico, la Conferenza episcopale italiana ribadisce senza sosta il diritto e il dovere del magistero di illuminare le coscienze dei fedeli riguardo ai valori fondati sulla natura e quindi sottratti a un lecito pluralismo. Reazioni?

Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
Il fatto è sorprendente perché invece riempiono ormai intere biblioteche gli scritti degli studiosi cattolici che nel corso degli ultimi decenni, grazie ai margini di libertà di cui era possibile fruire nel periodo del concilio Vaticano II, hanno dimostrato l’infondatezza dell’esegesi biblica e dell’ecclesiologia su cui poggiano le rivendicazioni vaticane.
Per constatare, infatti, quanto il sistema ecclesiastico attuale sia lontano dal messaggio biblico originario basterebbe leggere, per esempio, il volume (che riporta un’ampia bibliografia, consultabile da chi fosse interessato al tema) di Xabier Pikaza, Sistema, libertà, chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, Borla, Roma 2002, (traduzione di Marco Zappella, che ritocco leggermente).
Basandosi su una rigorosa lettura critica dei testi, l’autore – prima professore di Storia delle religioni e Teodicea presso l’Università pontificia di Salamanca e poi professore di Sacra Scrittura all’Università di Cantabria – dimostra che la Scrittura non attribuisce a Gesù l’intenzione di fondare una struttura ecclesiastica caratterizzata: (a) da un ordine sacerdotale modellato su quello ebraico, (b) da una gerarchia istituita per proseguire le funzioni degli apostoli e (c) da un magistero abilitato a insegnare la verità ai fedeli.

a) Nella storia del popolo ebraico, almeno in alcuni periodi, il sacerdozio ha certo avuto un ruolo notevole, e tuttavia “l’identità della religione ebraica e il suo contributo all’insieme della storia non sono legati ai sacerdoti”(p 95). Anzi, il Gesù dei vangeli non solo é estraneo al mondo sacerdotale ma é un suo avversario: Gesù “fu un laico e non volle purificare l’istituzione sacerdotale (come tentarono alcuni separati di Qumran) ma ne proclamò la rovina: Dio non ha bisogno né di templi né di sacerdoti, ma si rivela in modo immediato, messianico, guarendo i malati, perdonando gli esclusi del sistema. [... Perciò] nella chiesa non deve esserci un ordine sacerdotale distinto, proprio di alcuni eletti, nella linea dei sacerdoti e leviti di Israele”(ivi).
I vangeli, in effetti, descrivendo gli inizi della predicazione di Gesù, lo presentano come l’annunciatore del Regno di Dio, un mondo rinnovato nella giustizia e nella fratellanza al di fuori di ogni schema sacrale: “Gesù e i suoi primi seguaci non hanno voluto creare un’altra religione e una società sacra, ma un movimento carismatico del Regno”(p 257). Stando a Marco 3, 31-35, attorno a Gesù si é riunito un gruppo di uomini e donne che vogliono fare la volontà di Dio in un clima di fraternità, liberi dal peso opprimente delle autorità tradizionali: “I seguaci di Gesù sono una famiglia allargata e condividono vita, speranza e comunione personale: cento madri/figli, fratelli/sorelle”(p 173). Stranamente Marco non parla di ‘padri’, e ciò è sintomatico per una società in cui, come in genere in quelle antiche, l’autorità patriarcale era indiscussa: la chiesa attuale, quando esalta la paternità spirituale dei suoi sacerdoti, non sembra rinnegare quella gioiosa comunità paritaria?
Basta rileggere, in effetti, la bella parabola del seminatore (Marco 4, 13-20) per accorgersi che Gesù ha affidato il suo messaggio non a degli specialisti ma a tutti coloro che vogliono accoglierlo con animo aperto e disponibile. Dunque niente scribi o sacerdoti “che amministrano la Parola dall’alto, perché [questa] é di tutti. [...] La Parola é principio di comunione universale, e tutti possono comprenderla, accoglierla, condividerla in libertà, senza intermediari sacrali”(pp 161-162).
E la comunità a cui é rivolta la parola di Gesù è non solo egualitaria ma anche inclusiva. Accoglie i peccatori e non discrimina le donne, sicché una distinzione di funzioni – la parola é degli uomini, il servizio é delle donne – risulta estranea al vangelo. Affermando l’inferiorità della donna, per secoli la chiesa si è adattata alla mentalità del tempo. Ora finalmente la società è cambiata, ma la chiesa è rimasta vergognosamente indietro: “Oggi, a duemila anni di distanza, una cecità di questo tipo é incomprensibile”(pp 191-192).
Una società che mette radicalmente in discussione le gerarchie costituite, che non si comporta “secondo la tradizione degli antichi”(Marco 7,5), declassata a deposito di dottrine opinabili, che segue Gesù anche quando le sue critiche alle autorità religiose diventano sempre più esplicite è qualcosa di rivoluzionario. La rottura con la religiosità ufficiale è assoluta, tanto che Marco (14, 58) attribuisce a Gesù, giunto alla fine della sua avventura, l’idea che la religione incentrata sul culto del tempio non possa essere riformata ma vada semplicemente distrutta: il “messaggio del Regno implicava il rifiuto dell’autorità sacrale del tempio: la comunità sacrificale, diretta come teocrazia o governo di Dio grazie ai sacerdoti, é arrivata alla sua fine. [...] Per volontà di Dio, affinché la salvezza si apra ai poveri, questo sistema sacrale incentrato sul tempio deve finire [...]: va distrutto (cfr. Mc 11,15)”(pp 216-217). Non c’è dubbio che i vangeli, se letti senza pregiudizi, sono libri terribilmente anticlericali: non suggeriscono forse l’idea che anche oggi, perchè possa venire tra gli uomini il regno di Dio, è necessario battersi contro la ricostituzione di una casta sacerdotale che attribuisce a se stessa il monopolio del vangelo?
Credo che l’autore interpreti davvero il sentire di tanti credenti quando scrive, a proposito di una chiesa di tipo patriarcale, fondata su una gerarchia di maschi celibi, che “molti di noi ritengono che questo sistema ecclesiale sia ormai inutile: si trova vuoto d’acqua, risulta anti-evangelico; ha assolto una funzione, ma ha dato il massimo ed é diventato un fossile; non alimenta più la fede e la contemplazione dei credenti, né serve per animare la vita delle comunità; sopravvivrà per inerzia, per un tempo non molto lungo, e alla fine crollerà da solo, eccetto che cambi e si rinnovi a partire dal vangelo”(p 470, nota 1).

b) Nella comunità primitiva di cui parlano gli Atti degli Apostoli (15, 22-29), poi, le decisioni non sono assunte da una suprema autorità ma scaturiscono dal libero confronto. La chiesa “é un’assemblea partecipativa: Dio parla nel dialogo fraterno. Questo é il modello cristiano di governo, in una chiesa strutturata e in cui sorgono dei problemi. Essa non può risolverli in modo magico, né richiamarsi a un’istanza esteriore (oracolo di Dio, rivelazione privata o decisione particolare di un dignitario). [...] Perciò non può esserci nella chiesa una gerarchia, con poteri particolari”(p 287 e nota 47).
In effetti, secondo Matteo 18, 19-20, Gesù é presente dove due o tre persone sono riunite nel suo nome: “Perciò, il vicario di Cristo non é un’autorità isolata (papa, vescovo, presbitero), ma la stessa comunità riunita, in una sinfonia di preghiera e azione fraterna.”(p 357). Una chiesa in cui la gerarchia, cedendo alla tentazione del potere, si imponesse ai fedeli trasformandoli in ricettori passivi di decisioni che cadono dall’alto sarebbe poco evangelica: anzi, scrive senza mezzi termini Pikaza, una comunità “governata in modo impeccabile da autorità superiori (senza che i suoi membri siano responsabili), diventerebbe satanica”(p 358). Proprio contro questo pericolo mette in guardia Matteo 23, 8-10 esortando i credenti a rifiutare ruoli di potere e titoli onorifici: non è sempre attuale “il rischio di una chiesa che comincia a edificarsi su schemi di autorità gerarchica, perché alcuni all’interno di essa tentano di farsi chiamare padre, rabbino o maestro”(p 359)?
Chi ricorda la dottrina tradizionale, a questo punto farà osservare che la chiesa è fondata sui dodici apostoli e che i vescovi cattolici sono i loro successori. Ora, è vero che Marco 3, 12-14 presenta Gesù che costituisce il gruppo dei Dodici, però questi non sono dignitari ecclesiastici ma uomini del popolo, semplici galilei inviati a predicare il vangelo, mentre “una tradizione posteriore li ha resi garanti del ‘collegio episcopale’, come se fossero stati i primi dodici vescovi della chiesa. Ma essi non lo sono stati, e la loro missione é stata trasmessa non a una gerarchia particolare ma all’insieme della comunità”(p 204).
L’idea di una struttura gerarchica della chiesa fondata sulla successione apostolica non ha una base evangelica ma é una costruzione che comincia ad affermarsi solo alla fine del II secolo: “Al contrario di Ireneo, gli storici attuali sanno che non si può parlare di una successione stretta partendo dagli apostoli (i Dodici) fino ai vescovi propriamente detti [...]: i vescovi monarchici, nel senso posteriore del termine, sono sorti nella chiesa nel corso del secolo II d.C. [...] Nel corso di un intero secolo (a partire dal 50 fino al 150-160 d.C.) Roma non ebbe vescovi (e meno ancora papi) nel senso successivo del termine, mantenendosi e crescendo, tuttavia, come chiesa esemplare, molto ben organizzata, sotto la guida di presbiteri. Essa accettò l’episcopato soltanto due o tre decenni prima di Ireneo”(p 460).
In effetti, è storicamente accertato che le prime comunità cristiane sono state animate da gruppi di anziani o presbiteri, impegnati come Paolo a suscitare e tener viva la fede dei credenti e non a esigere la loro obbedienza. Una visione gerarchica della società non potrebbe richiamarsi a Gesù né a Paolo (cfr. I Cor. 12, 12-27) ma esprimerebbe piuttosto l’impostazione propria della Repubblica pla toni ca o dell’impero romano: sulla scia dell’esperienza di Gesù, “convinto che l’ordine del mondo é stato superato, Paolo espone e difende un anti-ordine di gratuità radicale, dove i più importanti sono i meno onorati [...]. Un mondo al rovescio, questo é sembrato il vangelo ai ‘buoni romani’. [...] Quando la chiesa posteriore si consolida affermando l’unità del corpo a partire da una gerarchia sacra, di tipo episcopale o presbiterale [...] potrà essere pla toni ca o romana, ma non paolina e nemmeno cristiana”(pp 306-307).
Proprio per essere fedeli al vangelo è perciò urgente secondo Pikaza mettere in discussione una struttura ecclesiastica autoritaria: occorre superare “il sistema imperiale (romano), che si é imposto fin dall’antichità e ha trasformato le comunità in una sola chiesa romana, dove tutte le questioni importanti si risolvono a partire da un vertice amministrativo e sacrale che avrebbe ricevuto da Dio il potere adeguato per fare ciò. [...] Quell’impero politico é caduto, ma é stato copiato e ricreato sotto forme sacrali dalla chiesa di Roma [...]. Ebbene, il ciclo di questa chiesa-sistema é terminato e dobbiamo tornare alla verità del vangelo [...]. Osiamo dire che la prassi attuale della chiesa, dove la partecipazione dei credenti é quasi nulla, ci sembra contraria al vangelo e deve finire, oggi meglio che domani”(pp 486-487).

c) Se non é possibile attribuire a Gesù l’istituzione di un ordine sacerdotale e di un’autorità fondata sulla successione apostolica, non ci può essere posto, in una comunità che si richiami a lui, per un magistero che pretenda di insegnare la verità, privando i fedeli del diritto di esprimere le proprie opinioni. La chiesa primitiva conosceva le divergenze di idee e persino Pietro, come ricorda Paolo (Galati 2, 11-14), veniva criticato in pubblico, senza che il dissenso venisse soffocato. Il disaccordo tra Pietro e Paolo mostra che il pluralismo delle scelte é un fatto assolutamente naturale; inaccettabile, al contrario, sarebbe un’uniformità frutto di imposizione autoritaria. Una società viva non può evitare la molteplicità delle esperienze e dei punti di vista, che sono una ricchezza e non un pericolo, e vanno perciò accolti senza spezzare la fraternità.
Per secoli, invece, si é seguita la via opposta: la chiesa romana ha cominciato ad attribuire a se stessa un ruolo magisteriale sempre più invadente e nel 1870 é arrivata a proclamarsi addirittura infallibile. Ma la pretesa, accentuatasi negli ultimi decenni, di dire su ogni questione una parola definitiva e vincolante, pur non contestata esplicitamente, é avvertita con crescente fastidio da molti credenti: “l’immensa maggioranza dei documenti della curia vaticana (a partire da molte encicliche) non é necessaria o é divenuta controproducente, perché dà l’impressione che soltanto quelli della curia sappiano pensare e dire ciò che é cristiano, usurpando un compito che é proprio delle comunità”(p 509).
Nel mondo occidentale, infatti, l’uomo ha oggi acquisito la consapevolezza della propria dignità di persona adulta, responsabile delle proprie idee e delle proprie scelte, mentre la chiesa romana continua a trattare i credenti come eterni minorenni, incapaci di trovare da sé il modo di vivere il vangelo e perciò sempre bisognosi di essere guidati dall’autorità: sembra fidarsi poco “dei suoi fedeli, inclusi i suoi ministri. Essa dovrebbe lasciare da parte le proprie certezze, il proprio desiderio di esprimere un’opinione in ognuno dei campi in discussione, [... invece non fa che imporre leggi a uomini e donne] come se pensasse che essi (soprattutto le donne) sono minorenni e che deve aiutarli, affinché trovino la sicurezza che da sé non troverebbero”(p 477).
Ancora una volta sul modello dello stato pla toni co, in cui i sapienti guidano gli inferiori, noi cattolici, scrive Pikaza, “abbiamo costruito una religione impositiva, ricordando agli altri quello che devono fare (evidentemente per il loro bene). Il vangelo ha proclamato che amiamo i nemici, cioè i diversi, [...] affinché così possano vivere a modo loro, come diversi [...]. Invece molte volte ci siamo sentiti padroni della verità e abbiamo voluto esigere da loro che siano come noi decidiamo (e non come essi vogliono).”(p 476).
Sarebbe dunque auspicabile un cambiamento di mentalità che, in consonanza con il vangelo, attribuisse alle guide della comunità il compito non di soffocare il pluralismo ma di far convivere le differenze. Solo in questa prospettiva sarebbe accettabile il ministero petrino, se si concepisse cioè “il compito di Pietro (= del papa), come segno di fedeltà e apertura creativa, in dialogo con le diverse tendenze ecclesiali: non un compito di uniformità, né di imposizione sulle chiese, autonome e diverse, ma di comunione e libertà tra tutte queste”(p 539).
Se tale é il senso del ruolo che Matteo 16, 18 assegna a Pietro come fondamento della comunità cristiana, é chiaro che “la chiesa romana come piccolo stato, con il suo potere e la sua pompa, i suoi ambasciatori (nunzi), la sua amministrazione e gerarchia sacrale (dai monsignori ai cardinali), risulta contraria al vangelo”(p 513). Essa si regge ancora per il sostegno che riceve da forze politiche, che a loro volta se ne servono per i loro giochi di potere, ma non è più credibile quando pretende di imporsi col suo centralismo organizzativo e col suo magistero universale ai cattolici sparsi in tutto il mondo
Se l’attuale struttura della chiesa non ha dunque un fondamento evangelico, come si spiega il fatto che, almeno in Italia, sia ancora comunemente accettato il suo ruolo magisteriale? Senza dimenticare il potere che deriva alla Conferenza episcopale italiana dal generoso finanziamento accordato dal sistema dell’8 per mille e dall’alleanza con le forze politiche più reazionarie del nostro Paese, mi pare che la risposta possibile sia una sola: la formazione religiosa degli italiani, praticanti o meno, é spesso ferma alle nozioni apprese alle lezioni di catechismo o alle prediche del parroco. Di conseguenza, non abituati alla libera ricerca teologica, neanche i credenti più impegnati sono di solito in condizione di mettere in dubbio una struttura ecclesiastica che è frutto solo di contingenze storiche!
La Congregazione per la Dottrina della Fede, inoltre, ormai da diversi anni ha ricominciato a lavorare a pieno ritmo per ridurre al silenzio le voci critiche, e i risultati sono innegabili: la fede del popolo cristiano, tornato a una supina obbedienza all’autorità sotto la guida dei ripetitori del verbo vaticano, si nutre ormai solo di devozione a padre Pio, pellegrinaggi ai santuari mariani e megaraduni pontifici. Impedita la divulgazione delle tesi, da tempo acquisite a livello degli specialisti, che mettono in discussione il potere della gerarchia, aumenta ovviamente il conformismo e diminuisce il numero dei credenti che utilizzano i contributi degli studiosi più qualificati per riscoprire l’autentico messaggio evangelico e liberare così la propria fede da incrostazioni plurisecolari. È a motivo dell’autoritarismo vaticano, dunque, che non viene messa in discussione l’idea che spetti al magistero il compito di illuminare il gregge dei fedeli: idea, questa, pericolosa non solo per l’autonomia della politica ma anche per l’autenticità della fede.
L’impegno per liberare il messaggio evangelico dalla gabbia in cui lo rinchiude l’autorità ecclesiastica credo che sia perciò, soprattutto per i credenti, una delle urgenze dell’attuale momento storico. Impegno doppiamente necessario: occorre, infatti, difendere la laicità dello stato e al contempo evitare che il vangelo appaia come un relitto del passato, adatto a un popolo di minorenni. Una radicale riforma della struttura ecclesiastica è ormai inderogabile, e non può certo prodursi, come opportunamente scrive Pikaza, su iniziativa di chi oggi detiene il potere ma solo ad opera di cristiani maturi che vivono liberamente la loro fede senza preoccuparsi dei diktat vaticani: “non m’attendo che i cambiamenti vengano dalla ‘cupola’ clericale, ma dalla radice del vangelo, a partire dal ricordo di Gesù e delle prime comunità cristiane, secondo la fede del popolo”(p 479).