Olivero contro Olivero L’affondo sui profughi divide il volontariato

di Andrea Rossi

“La Stampa” del 21 agosto 2010

I rifugiati devono diventare italiani, adeguarsi alla Costituzione o andarsene». Parole dure, quelle del fondatore del Sermig Ernesto Olivero. Parole che scatenano reazioni contrastanti, e una certa sorpresa in chi dei rifugiati si occupa. Fredo Olivero, direttore della Pastorale migranti, si dice «stupito», «amareggiato». «Olivero non sa di cosa parla. Non si e’ mai occupato di rifugiati. Dire che se non s’adeguano devono tornare al loro paese non ha senso. La legge e’ molto chiara sull’argomento; non parla di reciprocita’» . E la cittadinanza? «Giusto, ma sappiamo tutti che ci vogliono dieci anni per ottenerla. Piuttosto, serve la residenza. Torino ha sbagliato con i profughi di via Asti che la chiedevano: la residenza e’ il primo passo verso l’integrazione, perche’ permette di accedere a molti diritti, come l’assistenza sanitaria». I distinguo sono tanti, eppure c’e’ la sensazione che il fondatore del Sermig abbia infilato il dito nella piaga, portato alla luce questioni da discutere. Il direttore della Caritas Pierluigi Dovis ne e’ convinto: «Non entro nel merito delle opinioni di OLlivero, ma colgo nelle sue affermazioni apparentemente dissonanti lo sforzo di sollevare alcuni problemi: la reciprocita’, intesa come crescita collettiva; la progettualita’, perche’ non possiamo ragionare sull’incontro interculturale facendoci guidare (in positivo o negativo) dall’emozione delle emergenze da risolvere; gli estremi da superare, dall’atteggiamento buonista e facilone a quello colpevolista che mira all’esclusione». Altro nervo scoperto: ciascuno faccia la sua parte. «Lo Stato deve dare risposte», attacca Ernesto Olivero, e Dovis si sente di condividere: «Profughi e rom sono temi delicati di cui sempre piu’ dovremo occuparci. Non possono essere scaricati sugli enti locali o sul volontariato. Serve un intervento dello Stato e dell’Europa, che finora hanno latitato». Vero, anche se poi – sembra di capire – anche a livello locale c’e’ modo e modo di intervenire. Fredo Olivero ne e’ convinto: «A Torino l’errore e’ stato lasciare che queste persone occupassero un’edificio per un anno per poi trasferirle in un altro dove sono state assistite. Alla fine, alcuni hanno creduto che occupando un nuovo edificio sarebbero stati accuditi ancora. Il problema e’ far passare il concetto dell’inserimento. Se queste persone si convincono di dover essere assistite, diventa dura. A Settimo e’ stato fatto un buon lavoro; a Torino meno». Sullo sfondo resta il tema dei diritti. Ilda Curti, assessore alle Politiche per l’integrazione, lo dice chiaro: «I principi fondanti della nostra comunita’ riconoscono la liberta’ religiosa. E non e’ vero che i musulmani sono tutti stranieri: ci sono italiani, ci sono le seconde generazioni, ragazzi con cittadinanza italiana di fede islamica. Viviamo in una societa’ plurale: si tratta di riconoscerlo e farci i conti, non insegnare agli stranieri a integrarsi. Il principio della liberta’ e’ irrinunciabile». Da qui a volgere lo sguardo sulla moschea che sta per sorgere a Torino il passo e’ breve. Ernesto Olivero usa mille distinguo, parla di reciprocita’. Fredo Oliver indica altre priorita’: «L’importante e’ che non nasca nella conflittualita’ ma nel dialogo. L’Islam torinese negli ultimi anni ha fatto passi in avanti». Forse non abbastanza, stando a sentire Dovis. «Forse Torino ha affrettato i tempi: prima di scegliere la strada si sarebbe dovuto decidere dove andare, cioe’ chiedersi tutti insieme quale tipo di integrazione vogliamo. Detto cio’, se nasce per essere strumento d’integrazione va bene; se serve a creare ghetti no». Non siamo pronti, sembra voler dire qualcuno. «E io rispondo: che cosa aspettiamo?», ribatte Ilda Curti. «A Torino ci sono 30 mila persone di fede islamica. Se non adesso, quando saremo pronti? Dare dignita’ e trasparenza ai luoghi di culto e’ giusto e conveniente».