"Combatto
la 'Ndrangheta in nome di
padre Puglisi
di
Nando dalla Chiesa
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Il Fatto
Quotidiano
12 settembre
2010 |
Anche lui se l’era cercata.
E lei gli aveva dato una
mano. Finché un giorno
piombò un volontario in
parrocchia e le disse che
don Pino era morto. Un
ictus, pensò lei. Forse un
infarto. Invece gli avevano
sparato. Successe
diciassette anni fa,
mercoledì prossimo
l’anniversario. Lui era
padre Pino Puglisi, il prete
che smentì con la sua vita
il pregiudizio che “i
mafiosi non hanno paura
delle prediche”. Don Pino
non faceva altro. Né manette
né denunce né indagini. Solo
prediche. Al Brancaccio, il
quartiere dei Graviano,
proprio mentre i boss
fratelli volevano “mettersi
nelle mani” l’Italia. Si era
messo in testa di
convertirgli sotto gli occhi
i ragazzini, di vaccinarli
dai soldi facili della droga
e dal fascino della violenza
che fa sentire grandi a
quindici anni. E lei, suor
Carolina, lo seguiva con
entusiasmo. Dal ’91, dopo
otto anni passati in
Calabria, a Crotone, dove
aveva conosciuto monsignor
Bregantini, il vescovo della
lotta alla ‘ndrangheta. Al
mattino insegnava al Sacro
Cuore, un istituto
magistrale di Palermo, poi
sempre con lui, come
responsabile del centro
“Padre nostro”. Aveva subito
legato con il prete della
rivoluzione morale. La città
sfregiata al cuore dalle
stragi, l’ebbrezza della
primavera palermitana, i
preti di trincea,
l’educazione alla legalità.
Bisognava solo lavorare,
seminare speranza e
lavorare, sentendosi dietro
il nuovo vento che spirava
dal Vaticano. Nella valle
dei templi Giovanni Paolo II
aveva per la prima volta
condannato la mafia e i
mafiosi tuonando come un
profeta dalla montagna.
“Furono anni forti. Don Pino
si fidava ciecamente di me,
mi responsabilizzava, aveva
negli occhi la gioia di
potercela fare, vedevamo già
i frutti del futuro”.
Il clan invece decise
l’esecuzione simbolo. Lo
colpirono il giorno del suo
compleanno, ne faceva
cinquantasei. Il killer lo
chiamò per strada, padre
Puglisi si voltò, vide la
pistola e disse “Vi
aspettavo”. Sapeva bene di
essersela cercata. “I
mafiosi lo avevano già
pestato, ma lui non me lo
diceva per non farmi
spaventare. Gli chiedevo
perché avesse gli occhi
rossi e un labbro spaccato e
lui divagava, ‘soffro di
pressione’ rispondeva. Lo
trovai all’ospedale senza
più vita, gli occhi
semichiusi. E pensai,
disperata, che era stata una
ingiustizia immensa colpire
un uomo mite, la cui unica
colpa era di insegnare ai
giovani ad andare a testa
alta. Poi non ce l’ho fatta
a restare. Per carità, non
voglio parlare male di
nessuno, ma quello che
arrivò dopo di lui era tutto
l’opposto, come stile
educativo dico, era amico
dell’onorevole Cuffaro, alla
fine io ero considerata una
rompiscatole. Così d’accordo
con il cardinale me ne
andai, se ne andarono tutte
le suore. Feci un po’ di
anni a Vittoria, anche lì
scuola al mattino e
catechesi ed educazione al
pomeriggio. Finché sono
venuta qua”.
Già, “qua”. Perché suor
Carolina mica è stata per
niente il braccio destro di
padre Puglisi. Vuole
fortemente che il suo
insegnamento viva. Così
cinque anni fa ha fondato un
centro intitolato a lui in
un altro posto di trincea, a
Bosco contrada di Bovalino,
nella Locride, alle pendici
dell’Aspromonte, a pochi
chilometri da San Luca, dove
è arrivata nel 2001, nel
cuore della ‘ndrangheta che,
esattamente come i Graviano
di quasi vent’anni fa, vuole
l’Italia “nelle sue mani”.
Ce l’ha chiamata monsignor
Bregantini, prima di essere
a sua volta spedito in
Molise, si vede che la
Calabria abbondava di
testimoni. Insegna religione
alle elementari, suor
Carolina, e dicono che la
insegni pure bene, perché ha
una laurea in pedagogia
(“eravamo sei figli di un
panettiere e di una
casalinga, e ci siamo
laureati quasi tutti, una
bella famiglia, molto
unita”). Poi, con la
Fraternità Buon Samaritano,
è tutto un lavoro in
profondità sui ragazzini,
dai dodici anni in su,
doposcuola e itinerari di
formazione, la pace, la
giustizia, con il tentativo
di coinvolgere anche le
famiglie. “Non lo dimentichi
dove siamo. Qui lo Stato c’è
meno che in Sicilia. Davanti
alla ‘ndrangheta c’è quasi
il deserto. I ragazzi si
rassegnano presto. Ti dicono
che tanto in questa terra
non cambierà mai niente. Si
convincono che studiare non
serve perchè poi non è il
merito che fa la differenza,
ma la raccomandazione. Ed è
vero, vuole che non lo veda?
Però noi battiamo il chiodo,
con questa quarantina di
ragazzi che viene al centro,
e dei piccoli frutti
incominciamo a coglierli.
Sono felice quando sento
qualcuno di loro dire ‘il
nostro centro’, quando
capisco che si è creato un
sentimento di appartenenza.
Perché per loro lo abbiamo
costruito”.
E’ molto sobrio, il centro.
Una struttura circolare a un
piano, abbellita da
striscioni e cartelli
artistici disegnati e
inventati dai suoi
giovanissimi e meno giovani
frequentatori. “Vuol sapere
la mia più grande speranza?
Vedere il popolo della
Locride risorgere, sentire i
ragazzi più motivati a
scegliere il bene, la
legalità, una strada
diversa. Per questo dico a
tutti, lo scriva per favore:
non fate i camaleonti, non
mimetizzatevi, uscite allo
scoperto, datevi da fare.
Padre Puglisi lo diceva
sempre: se ognuno facesse
qualcosa, se ognuno si
mettesse in gioco, se ognuno
rifiutasse di farsi
spettatore di un mondo che
sta morendo, tutto sarebbe
diverso. E noi qui al centro
abbiamo bisogno di più
braccia, di potere fare più
lavoro”. Suor Carolina,
questa donna sorridente,
mite e coraggiosa nata ad
Aversa e arrivata nella
Locride attraverso
Brancaccio (“mi manca solo
la Sacra corona unita”,
scherza), chiede all’Italia
di non dimenticare la
Calabria e i suoi giovani.
“E se deve mettere una
fotografia, per favore, ne
metta una con i ragazzi" |