Panikkar, ponte tra due mondi

di Francesco Comina

“il Fatto Quotidiano” del 28 agosto 2010

L’ultimo biglietto di Raimon Panikkar mi arrivò tre mesi fa. Si chiudeva con questa frase: “Si può ancora cantare perché siamo mortali…”. Il canto di uno dei più grandi pensatori contemporanei si è spento l’altroieri nella sua casa di Tavertet, un paesino abbarbicato sui Pirenei, a cento chilometri da Barcellona. Da tempo Panikkar si era preparato all’evento. Aveva 92 anni. Venne ordinato sacerdote nel 1946. Ha vissuto una vita intensissima. Fino alla fine. La settimana scorsa ha ricevuto la visita dell’amico filosofo Achille Rossi e di tre giovani. L’ultima sua presenza ad un evento pubblico si è avuta due anni fa a Venezia per l’omaggio che la città gli ha offerto per i suoi 90 anni.
Panikkar non amava le definizioni. Ogni volta che si tentava di catturarlo, sfuggiva sempre, sia sul piano teorico, sia sul piano esistenziale. Figlio di madre catalana cattolica e padre indiano induista, aveva il sangue fortemente impastato di pluralismo. Amava i ponti, odiava i muri. Immaginava il mondo come un reticolo di strade che si intersecano e si incrociano. Aveva una cultura vastissima. Era laureato in chimica, filosofia e teologia. Conosceva sette lingue. Amava scavare per arrivare alle origini delle parole, perché per lui la parola non era soltanto uno strumento comunicativo ma un universo emotivo.
Storicodelle religioni
Ha insegnato in varie università, in Europa, in India e negli Stati Uniti. A Santa Barbara ha chiuso la sua vita di docente di Storia delle religioni come professore emerito. Ha scritto una settantina di libri, quasi tutti tradotti in italiano. Negli anni Cinquanta e Sessanta era già conosciuto. Teneva dialoghi con i grandi pensatori del tempo. Aveva avuto un importante ruolo durante il Concilio Vaticano II. Le sue tesi avevano influenzato teologi come Ives Congar, Hans Küng, Jürgen Moltmann, Leonardo Boff.
Era svincolato da letture dogmatiche o ideologiche. Parlava di un “Cristo sconosciuto dell’induismo”, di una realtà “cosmoteandrica” come connessione indissolubile delle tre dimensioni della realtà, quella cosmica, quella divina e quella umana. Sosteneva sempre che per conoscere le altre religioni fosse doveroso un atto di “conversione”, altrimenti non è possibile capire la sorgente divina che batte sulle strade di altri cammini spirituali. In una espressione famosa Panikkar disse di sé: “Sono nato cristiano, mi sono scoperto indù e torno buddhista, senza avere mai perso di vista la mia matrice originaria”. Come dire che la fede non può essere una dimensione chiusa dell’esperienza di vita, ma deve necessariamente porsi come elemento di apertura agli altri fino al punto di ammettere la conversione per collocarsi nell’orizzonte dell’alterità. Amava ripetere riecheggiando il vangelo: “Chi ha paura di perdere la fede la perderà…” Non sopportava parole come “multiculturalismo” o “civiltà planetaria” che gli sembravano dei tentativi di uniformare e omogeneizzare la storia. In una discussione di qualche anno fa disse: “Viviamo da troppo tempo dentro una sindrome pericolosa, la stessa che presumeva che solo una religione fosse vera e che le altre fossero semplicemente dei cammini spirituali errati. Oggi si fa esattamente così quando si postula una democrazia mondiale, una scienza universale, una globalizzazione dell’economia e via dicendo. Il monoculturalismo, è molto pericoloso. Credo che il problema che dovremmo porci sia diametralmente opposto: come renderci conto che nessuna cultura è isolata e che nessuna religione può cavarsela da sola?” Anche sul piano del progresso e dello sviluppo, Panikkar era fortemente critico: “Il sistema economico attuale è l’ultimo baluardo del colonialismo. Solo il 25 per cento gode del privilegio del progresso, ma il 75 ne porta il peso. Se tutto il mondo utilizzasse tanta carta quanta ne consuma il nord non ci sarebbero più alberi sulla terra. Il complesso tecnocratico oggi ha invaso il resto del mondo con molta più efficacia e incidenza rispetto all’impero politico e religioso”.
L’esperienza in India
È considerato un grande maestro anche in India. Da giovane aveva incontrato Gandhi ma l’amicizia più importante la fece con un’altra grande anima: Henry Le Saux, il monaco benedettino francese conosciuto come Abhisiktànanda. Con lui fece un lungo pellegrinaggio alle sorgenti del Gange. E lo raccontò in un libro. Oramai nella vecchiaia decise di fare un pellegrinaggio sul Kailasa, il monte sacro dell’India, per rispondere ad una promessa fatta a suo padre. Fece quell’impresa come fosse un “evento ultimo”. Quando tornò a casa scrisse questi versi, oggi più veri che mai: “Va’, come se non andassi / come se non riuscissi, rinuncia / Senza peregrinare sii pellegrino / pellegrino verso il Non-luogo / ora – qui”.
I funerali si terranno il 3 settembre nel monastero di Montserrat, vicino a Barcellona