Per una Chiesa «di strada»
di Luigi Ciotti
“Avvenire” del 22 dicembre 2010
Sono nato in Veneto, a Pieve di Cadore, provincia di Belluno,
nelle Dolomiti. La mia famiglia si è trasferita a Torino negli anni Cinquanta.
La nostra prima casa fu una delle baracche del cantiere dove lavorava mio papà,
uno degli operai impegnati nella costruzione del Politecnico. La fatica del
lasciare la propria terra, del trasferirsi in una grande città – dove
l’accoglienza e la generosità di alcuni non facevano dimenticare le chiusure e
i rifiuti di altri – mi ha segnato nel profondo, ma mi ha anche aiutato a
mettermi nei panni degli altri, a capire ad esempio le storie di quei ragazzi
che, qualche anno dopo, sarebbero arrivati a Torino dalle regioni del Sud.
Spaesati. Sui portoni di molte case una scritta terribile: «Non si affittano
case ai meridionali». Molti di quei ragazzi passavano la notte sui vagoni
parcheggiati nella stazione di Porta Nuova, affidando al domani la speranza di
un cambiamento. Una storia che si ripete oggi con altri volti, ma con le stesse
speranze, la stessa ricerca di dignità. Ho avvicinato quei ragazzi, li ho
conosciuti e mi sono fatto «riconoscere». Ho condiviso le loro esperienze, ho
sentito le loro speranze, i loro smarrimenti. Ad aprirmi gli occhi era stata
anche una persona più anziana, un medico tormentato dai sensi di colpa per un
intervento sbagliato, che aveva eletto a suo domicilio una panchina. Riuscii ad
avvicinarlo vincendo la sua diffidenza, il carattere schivo e a volte burbero,
scoprendo la sua umanità, il suo gran cuore. «Non preoccuparti per me – mi disse
un giorno – occupati di loro», e m’indicò un gruppo di ragazzi che faceva uso di
anfetamine, in quegli anni le droghe più diffuse prima del dilagare
dell’eroina.
Ho incontrato la strada grazie alla strada. Strada come luogo di povertà, di
bisogni, di linguaggi, di relazioni e di domande in continua trasformazione.
Strada come luogo di crescita e di consapevolezza: dove imparare a misurarsi
con l’incertezza e la complessità, a non selezionare i compagni di viaggio, a
costruire speranza e corresponsabilità. Cercai degli amici con cui condividere
il mio impegno. A 45 anni di distanza posso dire che il Gruppo Abele è nato
così: da un incontro maturato sulla strada nel tentativo di rispondere a bisogni
che richiedevano nuovi approcci, linguaggi, strumenti. Ma non basta interrogare
la strada. Una volta posta la domanda è necessario anche ascoltare – con
libertà e disponibilità a mettere in pratica quanto ascoltato – la risposta.
Anche perché la strada non consegna come risposta ciò che uno vuol sentirsi
dire. Il linguaggio della strada è scomodo, controcorrente, anche a rischio di
confusione, di fraintendimento. Quanta fatica è necessaria per imparare dalla
strada il linguaggio della fedeltà e della libertà. Anche all’interno della
stessa comunità parrocchiale si rischia – se si ascolta con serietà la strada –
di non essere capiti... Le domande poste alla strada sono come la manna che il
popolo d’Israele incontra nel deserto. Una manna che permette di sopravvivere e
procedere, ma che non può essere tenuta da parte, immagazzinata. Bisogna
consumarla tutta. Domani se ne riceverà dell’altra, che basterà per un altro
giorno di cammino. Fermare le domande è interrompere il cammino. È cedere alla
tentazione di porre in magazzino quanto acquisito e illudersi di poter vivere
di rendita. È routine, una tentazione a cui siamo tutti soggetti, anche nelle
nostre parrocchie. Ma è così che molte insegne ingialliscono, che molti servizi
invecchiano nella routine o restano uguali nella frenesia di un cambiamento
solo superficiale. Pigrizia, frenesia senza direzione: sono tutti modi per
scappare dal’oggi, per fuggire dalla strada. Non c’è casa senza strada e non c’è
strada senza casa. Se mancano le case o almeno una casa, non c’è bisogno di
strada; ma nessuna casa può «mancare» di strade: significa negare alla casa e
alle case la possibilità di relazioni e di collegamento con il mondo. Strada e
casa sono così strettamente legate l’una all’altra. Al punto che l’una è
premessa dell’altra e che il cambiare dell’una modifica l’altra. Intrecciare
«strada», «case» e «oggi» è quindi premessa, conseguenza, metodo e contenuto di
ogni rinnovamento parrocchiale. E significa confrontarsi con concreti e precisi
«nodi»: imparare ad abitare «anche» fuori casa (senza paura di attraversare e
percorrere strade impegnative e nuove); non aver paura della strada: viaggiare
per non restare chiusi nei propri confini e orizzonti; ripensare le categorie
dell’educare, dell’essere casa, famiglia, giovani...; costruire comunità e
comunità di «famiglie vicine»; promuovere vita culturale e tensione per il
«bello» per contrastare degrado, ingiustizie e solitudine; fare della
celebrazione liturgica il momento di sintesi, di nutrimento e di verità tra il
dire e il testimoniare giustizia e solidarietà; rispondere alle ingiustizie
(mute e gridate) che vengono dalla strada. «Strada», «casa» e «oggi» sono, tra
l’altro (così ci dicono gli studiosi della parola di Dio) termini biblici di
inesauribile ricchezza.
Tenerli insieme è sfida e aiuto per non restare chiusi nella propria casa e/o
nella propria parrocchia, non costruire case, chiese, cortili e/o oratori
lontani dalla strada, dalla fatica ma anche dalla bellezza dell’abitarla, non
illudersi di crescere e maturare «solo » sulla strada o solo nel chiuso di
qualche struttura e/o istituzione; non fare dell’educare un semplice manuale di
comportamento che ingigantisce la forma e calpesta la sostanza; un manuale che
insegna a non trasgredire i precetti ma non a vivere le responsabilità. Se
l’essere «tra le case» continua il suo dinamico confronto con la strada, le
nostre parrocchie possono sprigionare la loro potenziale vitalità e rivelare
tutta la loro forza e attualità! Mai come oggi le «case», le persone e le
famiglie hanno fame e sete di luoghi in grado di consegnare possibilità di
senso e autentica vita comunitaria.
Di speranza.