L'ombra
di Pio XII
di Gad Lerner
“la
Repubblica” del 18 gennaio 2010
Shalom, in ebraico, è il traguardo della pace derivante dalla
shelemut, che significa interezza, la pienezza conseguibile attraverso uno
sforzo di completamento interiore. Il Papa cristiano che ieri ha concluso il suo
intervento pregando in ebraico nel Tempio Maggiore di Roma, appariva proteso nel
tentativo impervio del ricongiungimento al popolo dell'Alleanza
"irrevocabile", rimasto custode del Decalogo sempiterno anche nei
secoli posteriori alla nascita di Gesù. Ma al cospetto di quell'assemblea
Benedetto XVI non ha potuto citare il nome del suo predecessore novecentesco Pio
XII.
"Purtroppo molti rimasero indifferenti", ha detto, riferendosi alla
deportazione degli ebrei romani il 16 ottobre 1943. Un riconoscimento di colpa
cauto ma inequivocabile. Si è alzato in piedi, visibilmente emozionato, di
fronte ai pochi sopravvissuti all'ecatombe di Auschwitz, anche se la sua indole
professorale tedesca gli ha precluso di arricchire il testo scritto,
improvvisando, con parole in grado di corrispondere direttamente alle loro
lacrime.
Benedetto XVI si è dunque prodotto in un ragionamento elevato e impegnativo sul
terreno della teologia che gli è maggiormente proprio, consapevole che la
Chiesa deve ancora rinnovare una dottrina adeguata a spiegarsi il mistero
dell'ebraismo vivo e vegeto nonostante Cristo e senza Cristo. Sulle
responsabilità storiche rievocate dai suoi ospiti ha compiuto un passo in
avanti, ha ribadito il mea culpa di Giovanni Paolo II, ha dato prova di umiltà,
ha assicurato che il Concilio resta un punto fermo. Ma senza ancora concedere
una svolta interpretativa che egli vivrebbe come lacerante.
Il messaggio più forte e commovente di parte ebraica gli era stato rivolto da
Riccardo Pacifici che, pur parlando da presidente della Comunità di Roma, non
ha dissimulato il suo essere un figlio della Shoah e un passionale capopopolo
ghettarolo. È stato l'unico, Pacifici, a citare papa Pacelli: "Il silenzio
di Pio XII duole ancora come un atto mancato". Ha manifestato apprezzamento
per l'impegno di Ratzinger contro la xenofobia e il razzismo, in difesa degli
immigrati, per la libertà religiosa, per il riconoscimento vaticano dello Stato
d'Israele. Ma, riferendosi al rabbino Giuseppe Laras e alle altre personalità
ebraiche che hanno scelto di disertare l'appuntamento, non a caso ha voluto
manifestare loro rispetto.
Se il perseguimento del shalom implica una pienezza di ricongiungimento, molto
cammino deve compiere ancora l'amicizia ebraico-cristiana. E non è detto che i
portavoce delle due fedi presenti ieri in sinagoga siano disposti a farsi carico
delle incognite dirompenti da affrontare, tanto più che sarebbe impossibile
farlo prescindendo dalla realtà del monoteismo islamico.
Gli ebrei romani non dimenticano che i cancelli del loro ghetto furono
definitivamente abbattuti solo nel 1870, alla caduta dello Stato pontificio, con
grave ritardo sul resto d'Europa. E che i successori di Pio IX opposero un
rifiuto teologico al ritorno degli ebrei, additati come colpevoli di deicidio,
dalla diaspora a Gerusalemme. Il superamento della millenaria dottrina cristiana
secondo cui alla Chiesa spettava il titolo di "Vera Israele" è un
percorso faticoso, reso accidentato dalla necessità di riconoscere misfatti
compiuti nel nome del Vangelo. Possono le beatificazioni coesistere con
l'ammissione di una lettura errata del Vangelo? E, a loro volta, quando gli
ebrei saranno pronti a riconoscere familiare e profetico il messaggio del loro
correligionario Gesù, attraverso cui, seppure tra mille contraddizioni, si è
diffuso nel mondo l'insegnamento della Bibbia?
Definendo "irrevocabili" i doni di cui il Signore ha reso portatori
gli ebrei, "scelti per primi", Benedetto XVI pone le premesse di
un'esplorazione di fronte a cui egli stesso si arresta, per cautele dogmatiche e
di opportunità. Ben sapendo che l'idea della conversione esige di essere
ripensata in una tale prospettiva. Ciò che oggi dispiace agli uni e agli altri.
Il dialogo che è ripreso ieri solennemente nella sinagoga di Roma resta
circoscritto nell'accezione dei suoi promotori. Lo ha dimostrato il Papa quando
ha ripristinato la preghiera latina per "l'illuminazione" degli ebrei
e quando ha manifestato dubbi che possa esistere un vero e proprio dialogo
interreligioso. Ma anche il rabbino capo Riccardo Di Segni, intervistato da
"Avvenire" prima della visita di Benedetto XVI, ne ha fornito una
versione assai limitativa: "Il dialogo serve per conoscerci e per
rispettarci, cioè per farci più forti nelle nostre fedi". Punto e basta.
A volte l'apparenza inganna: tra gli oppositori alla visita di ieri, criticata
perché elusiva delle questioni storiche e teologiche irrisolte, ve ne sono di
ben più disponibili a un dialogo che superi i rispettivi integralismi. Eppure
chi ha assistito alla cerimonia sulle rive del Tevere sente di aver vissuto un
altro passaggio storico importante. Se nel 1943 "purtroppo molti rimasero
indifferenti", e a dirlo per la prima volta è il successore di Pio XII,
vuol dire che la comune fede nell'unico Dio tende a ricongiungere il destino di
ebrei e cristiani verso la pienezza, il shalom.