L'amore dei bianchi

di Alessandro Portelli

“il manifesto” del 12 gennaio 2010

«È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti»: così si apriva il preambolo delle leggi razziste proclamate dal governo italiano fascista nel 1938. Da allora abbiamo fatto notevoli progressi: non ci proclamiamo più francamente razzisti, anzi discettiamo su prestigiosi organi di stampa se sia proprio educato chiamare «negri» i deportati di Rosarno. Siamo gente civile, ci mancherebbe altro - razzisti, ma ipocriti. E se è vero che l'ipocrisia è un omaggio del vizio alla virtù, razzisti che si vergognano e, come tutti i pervertiti, lo fanno di nascosto. Finché non viene scandalosamente alla luce.

Dopo averlo negato per anni, adesso tutti deplorano il razzismo negli stadi, tutti sono d'accordo a sospendere le partite se partono cori razzisti, ma poi non succede mai e si punisce il giocatore nero che rimanda l'offesa al mittente.
A posteriori tutti, dal papa in giù, deplorano anche con parole eloquenti le violenze (beninteso, tutte le violenze, quelle di chi spara e quelle di chi si ribella contro gli sparatori) - ma quando le cose succedono non c'è ombra di prete a fare testimonianza fermando i fedeli cristiani che sparano e fanno barricate. E lasciamo perdere la sinistra, che vagola per giungle e deserti tutti suoi - e i centristi che trovano estrema pure l'idea che un bambino nato in Italia sia italiano (come in Francia o in quegli Stati Uniti che imitiamo sempre solo nel peggio).
Rosarno allora è un elemento di chiarezza: la rivolta nera mette a nudo la violenza della schiavitù e dello sfruttamento; il pogrom bianco mette in pratica quello che si annidava nei discorsi e nelle teste del senso comune, che si realizzava in una miriade di singoli episodi, e che le persone intelligenti minimizzavano come folklore o ignoranza; e il ruolo delle istituzioni ridotto alla presenza-cuscinetto delle forze dell'ordine svela la vacuità a cui si è ridotta la sfera pubblica, dalla politica all'informazione.
Adesso lo possiamo dire francamente di nuovo: il razzismo riunifica l'Italia. Meno di un secolo fa severi antropologi discettavano se i calabresi fossero o no di razza italiana; adesso il razzismo contro gli immigrati mette d'accordo leghisti e terroni. Il governo decide di cacciare, deportare o esorcizzare i bambini stranieri che superano il trenta per cento nelle scuole, sapendo benissimo che non si può fare, che un sacco di questi bambini sono nati in Italia, che tanti parlano italiano meglio dei loro compagni, e che comunque la percentuale è superata in pochissimi casi; ma ci lucra sopra come effetto annuncio, per spaventare i cittadini con un pericolo inesistente affinché si rifugino sotto le ali protettrici del Partito dell'Amore.
Da un pezzo abbiamo capito che tutto questo non è mero residuo del passato ma anche un prodotto rinnovato di tutte le modernità. Lo vediamo proprio in quello che stanno facendo alla scuola. Il razzismo non è solo ignoranza ma è anche ignoranza, e più smontiamo le scuole, più indeboliamo un anticorpo. Non solo: perché allo svuotamento della scuola non corrisponde più un vuoto. Lo spazio abbandonato si riempie di altre informazioni, di altre conoscenze. Anni fa, intervistando giovani attivisti di destra a Roma, mi colpì il fatto che tutti avevano fior di referenze bibliografiche sulla punta delle dita, ma non avevano gli strumenti critici per capire che erano fonti inattendibili, referenze fasulle. Adesso dovremmo domandarci quante ore anche il normale razzista di massa trascorra navigando in rete, frequentando Facebook o You Tube (o guardando i tg) senza gli strumenti che gli permettano di non bersi come oro colato le oscenità e le banalità che ci trovano. Nell'età dell'informazione, nell'economia della conoscenza, è sempre più facile essere contemporaneamente informati e ignoranti. L'altro fattore è la terra. Modernizzazione, da almeno mezzo secolo in qua, vuol dire abbandono dell'agricoltura, mettere le fabbriche al posto degli aranci, poi lasciar marcire le fabbriche, lasciar marcire le persone che dormono dentro le loro rovine, e adesso lasciar marcire gli aranci che nessuno raccoglie, i neri perché li hanno cacciati, i bianchi perché non accettano paghe «da neri».
Negli Stati Uniti in agricoltura e nell'industria agroalimentare si sono formate le nuove schiavitù dei lavoratori migranti; e questo aspetto del modello americano in Italia lo stiamo tragicamente imitando, e migliorando con l'aggiunta nostrana di 'ndranghete e camorre. Ma siccome la campagna e l'agricoltura sono per definizione arretrate e obsolete nessuno si accorge che questo è forse il problema economico e sociale più grosso che abbiamo davanti. Chissà se adesso, dopo lo sdegno e le belle parole, qualcuno comincerà a riorientarsi.
Per ora, il nostro sindacato più progressista è scettico sull'opportunità di uno sciopero dei migranti. Se lo fanno da soli si ghettizzano (come se non lo fossero già) - e allora perché non lo facciamo tutti insieme, un bello sciopero generale contro il razzismo e lo sfruttamento? E se poi non riesce che figura ci facciamo? Ma che figura ci facciamo invece se non lo facciamo?