La sofferenza non è un valore presso Dio

 

Mauro Pedrazzoli

da “il foglio” mensile di alcuni cristiani torinesi n°367 dicembre 2009

«Papa Wojtyla si flagellava», titola «La Stampa» del 21 novembre. Una suora polacca che prestava servizio nell’appartamento pontificio e accudiva il Papa rivela in una deposizione per la beatificazione che Karol Wojtyla si sottoponeva a penitenze corporali fino a che era ancora in grado di muoversi da solo. Un paio di anni fa la senatrice Paola Binetti aveva ammesso di far uso del cilicio.

I cilici e le auto-flagellazioni presuppongono che la sofferenza sia una cosa buona agli occhi di Dio: è la grande ma disastrosa equazione sofferenza = valore presso Dio. Quindi essa andava cercata, al limite procurata a se stessi, non solo per placare le passioni carnali e i bollenti spiriti, ma anche come patrimonio da investire religiosamente. Da qui l’invito pluriripetuto in passato a offrire a Dio le proprie sofferenze, presupponendo ovviamente di offrire qualcosa di gradito (in genere non si offre qualcosa di sgradito). È l’immagine di un Dio che rimane soddisfatto delle sofferenze degli uomini (lo gratificano), sino all’ulteriore assurdo di rimanere placato dalla passione di Suo Figlio, in seguito alla quale concede come contraccambio la redenzione-salvezza.

 

L’offesa lavata nel sangue

Il tutto era condito dalla necessità di offrire il dolore per l’espiazione dei peccati, per il perdono-conversione dei peccatori e così via. Ma, al di là dell’individuo e del singolo, c’era un “deposito”, una specie di serbatoio, un accumulo a livello collettivo (ecclesiale) di meriti in positivo che possono lavare le colpe e togliere la pena; era come un tesoro per la Chiesa che poteva essere distribuito e consumato per l’espiazione, nonché liofilizzato nelle indulgenze. Naturalmente se c’è un processo di utilizzo che tende a svuotare tale prezioso patrimonio, se ne rende necessario uno opposto di “ricarica”, appunto attraverso la sofferenza sia naturale, sia morale, e sia procurata, quasi per completare nella propria carne ciò che manca alla passione di Cristo (con riferimento a Colossesi 1,24; ma non è questo il senso del testo deutero-paolino: esso significa che l’apostolo con le sue sofferenze contribuisce a raccorciare, a ridurre le tribolazioni e i dolori escatologici, le “doglie” del Messia [Cristos] quando tornerà negli ultimi tempi apocalittici).

Allo stesso modo, in parallelo, c’era un accumulo collettivo di demeriti, di peccati e di colpe che possono essere riparati, espiati dai dolori dei santi-giusti-buoni, che contribuiscono a offrire al Signore (come a un signore-padrone medievale) la necessaria soddisfazione per le offese a Lui arrecate. Il debito va pagato, il peccato va lavato, e la soddisfazione va resa, anche e soprattutto con le sofferenze meritorie (diventano dei meriti che compensano i demeriti) dei buoni, dei giusti, dei santi. L’offesa (a Dio) va «lavata nel sangue» come le offese inter-umane. Qualsiasi faida, più o meno mafiosa, non avrebbe alcuna difficoltà a capire la teoria della riparazione-soddisfazione applicata alla morte di Gesù.

Ora il messaggio del Gesù storico ha costituito il più radicale e perentorio attacco volto a smantellare il suddetto impianto, perché la predicazione e la vita di Gesù di Nazareth hanno spezzato, disintegrato l’equazione sofferenza = valore presso Dio. I malati li ha guariti, e sùbito! Non ha detto loro di continuare a soffrire nella malattia e di offrire a Dio le proprie sofferenze. Nella testimonianza del Gesù storico non è rintracciabile alcuna espressione, alcun detto che vada, anche solo di striscio, nella direzione di procurarsi sofferenza. L’intera vicenda storica di Gesù costituisce la più drastica negazione della mistica del dolore: non censura del desiderio umano, ma una sua liberazione nella dinamica del Regno. Come a dire: dovete desiderare di più, molto di più (del cibo e del vestito), cioè prima di tutto il Regno e la sua giustizia (e il resto in aggiunta). E qualora si dovesse lasciare qualcosa, o case, o figli, o fratelli, o campi (in senso alternativo-disgiuntivo), oltre alla vita eterna futura, si riceve già adesso molto di più, il centuplo nel tempo presente, come precisa Marco 10,29s, proprio in quello che si è lasciato: case, figli, fratelli, campi. Poiché l’elenco non ha valore di somma ma di alternativa, esclude sia un rigorismo di principio che un’interpretazione puramente ascetica della ricompensa centuplicata.

Il Regno appunto non significa rimanere nello stato sofferente o peggio ancora procurarselo ma, come si evince anche e soprattutto dal Discorso della montagna con relative beatitudini (su cui torneremo), nel suo radicale e immediato capovolgimento in gioia, guarigione, pane, assenza di servitù.