Sulle colpe di Pio XII e Craxi un intollerabile revisionismo
di Ettore Masina
“micromega-online” del 15 gennaio 2010
chi è Ettore MASINA
Sarà a causa della bizzosità tipica di certi vecchi o di un
moralismo d’altri tempi ma a me sembra francamente intollerabile la prosopopea
con la quale alcune persone “di potere” cercano di convincerci che nel
giudicare i loro maestri si può – anzi: si deve – procedere a spicchi, a
settori, a punti di vista, non negando del tutto, ciò che sarebbe impossibile,
certe colpe o patologie ma rimandandone la valutazione ad altra (non definita)
sede; adulterando così la memoria storica e nascondendo i limiti che ne hanno
profondamente caratterizzato le azioni.
So bene che i giudizi storici sono sempre controversi e che il tempo opera, per
così dire, la remissione di molti peccati, ma certo non li cancella. Confesso,
per esempio, che ad ogni 1 gennaio, ascoltando in televisione il tradizionale
concerto della Filarmonica di Vienna, batto anch’io gioiosamente mani e piedi
durante l’esecuzione della Marcia di Radetzky. Non dimentico tuttavia che se
per gli austriaci il Feldmaresciallo fu un fedele difensore dell’Impero, noi
italiani lo consideriamo, a ragione, un feroce macellaio di patrioti; e il mio
tributo d’ammirazione non va, ovviamente, a costui ma al creatore di quella
allegra musica, Johann Baptist Strauss. A 152 anni dalla morte del
generalissimo, il suo nome è poco più che un nome, almeno in
quest’occasione.
Quella con cui mi scontro (ci scontriamo: perché siamo certamente in molti) è
invece la pretesa di alcuni altissimi ecclesiastici e di alcuni potenti uomini e
donne della politica italiana di recuperare e celebrare la memoria di personaggi
(Pio XII e Craxi, per fare i due esempi – come dire? – più vistosi) che
hanno influito sulla vita sociale di un recente o non lontano passato. Di Pio
XII si pretenderebbe che accettassimo una definizione di santità “privata”,
accantonando le critiche su certe gravi caratteristiche del suo pontificato:
operazione già compiuta per il papa della ghigliottina e del Sillabo, Pio IX, o
per quello della ferocissima caccia al “modernismo”, Pio X.
Per Craxi il tentativo è inverso: dovremmo sorvolare sul privato (il suo cinico
rampantismo, la sua negazione, anche irridente, di ogni questione morale, la sua
arroganza, le sue amicizie e frequentazioni…) per celebrare quelli che i suoi
ammiratori considerano meriti politici: la passione per il “moderno”, il
decisionismo, il rifiuto di ogni rapporto con l’altro grande partito della
sinistra, una presenza dell’Italia nel contesto internazionale meno prona alle
decisioni di Washington, il reclutamento di una “giovane” classe politica,
buona parte della quale (Cicchitto, Brunetta, Boniver, Sassone etc.) è ancora
al potere, essendo prontamente transitata dalla sinistra storica alla destra
arcoriana. Se a Pio XII si vorrebbe attribuire l’ingresso nella nomenclatura
dei santi, a Craxi, nel decennale della sua morte, spetterebbe un posto di
rilievo nell’Olimpo repubblicano, e perciò l’intitolazione di vie o di
giardini… L’uno e l’altro, dunque, vengono proposti alle giovani
generazioni come esempi da seguire.
Ma si può davvero scotomizzare il ricordo di una persona, scindendone la vita
privata da quella pubblica, quando quella persona rivesta o abbia rivestito un
ruolo tanto importante nella collettività da essere poi inevitabilmente
considerato un modello e un modellatore dell’ambiente in cui ha vissuto?
Domanda più che mai attuale; e a me pare che la risposta non possa che essere
negativa: propensioni e scelte “private” incidono inevitabilmente
nell’azione pubblica di un personaggio, mentre il potere facilita il cedimento
alle sue inclinazioni.
Ho avuto nella mia lunga esistenza la ventura di vivere appassionatamente la
vita della Chiesa, per trent’anni, durante il pontificato di papa Pacelli, e
di stare in Parlamento fra il 1983 e il 1992, esattamente il tempo dell’apogeo
di Craxi e della sua caduta. Nell’uno e nell’altro caso la sorte mi ha
concesso di conoscere molti più fatti e testimonianze di quanti potessero
arrivarne ai “non addetti ai lavori”. Così mi pare doveroso testimoniare
che certamente Pio XII e Craxi ebbero qualità e realizzazioni che appartengono
alla storia ma esse furono inficiate dai guasti delle intemperanze (per usare un
eufemismo) personali.
Pacelli fu un maestoso protagonista di un tempo terribile e maestro di raffinata
cultura ma anche uomo devastato da nevrosi e perciò rinserrato in gelida
solitudine nel suo appartamento privato, con un gruppetto di devote suore con le
quali parlava in tedesco; incline, per bisogno di affetto, al nepotismo e alla
protezione di cialtroni come il suo medico personale che lo tradì in punto di
morte, vendendo la sua cartella clinica e le foto della sua agonìa; eroico nel
suo pessimismo, nella sua convinzione di dover reggere da se solo l’immane
tragedia di un mondo avviato a un’imminente apocalisse; e perciò durissimo
contro chi non divideva i suoi timori o le sue strategie e talvolta,
consapevolmente o no, crudele nei confronti dei sottoposti, fossero essi diretti
collaboratori del suo ufficio o umili servitori della sua corte; e questa aridità
di carattere, questa incapacità di rendersi conto, per esempio, delle scelte
dei poveri segnò tragicamente il suo pontificato.
La sua carità e la sua misericordia furono schiacciate dalle sue fobie. Non
rimane da sondare soltanto la questione della sua difesa del popolo ebraico. Il
papa che con pronta generosità aveva trasformato le sue ville di Castelgandolfo
in bivacco di profughi dai bombardamenti romani, pochi mesi più tardi con i
decreti del suo Sant’Offizio espulse, o fece espellere, dalle chiese italiane,
milioni di operai, contadini, pensionati accusandoli di essere “senza Dio”
mentre era evidente che la stragrande maggioranza di loro aveva scelto di dare
il proprio voto alle forze di sinistra soltanto per ottenere, per sé, per i
figli ma anche per tutti i poveri, una vita più degna.
Ricordo ancora con profondissima emozione le mie campagne elettorali in
Lombardia, in Toscana e nel Veneto, il volto buono di anziani elettori del PCI,
del tutto ignari del materialismo dialettico, che mi chiedevano di parlare del
Concilio e poi mi domandavano: “Ma allora, se è vero quello che dici tu,
perché i nostri parroci ci hanno cacciato? Perché ci hanno considerato
pubblici peccatori?”. Come pensare che un esercizio siffatto di un magistero
sovrano che negava misericordia e comprensione, diffondendo tanto dolore, sia
stato esente da colpe?
Quanto a Craxi, come si possono dimenticare le responsabilità gravissime che
egli ebbe nel deterioramento della politica italiana, diventando il maestro, in
pratica e in teoria, di un’idea di “moderno” e di realpolitik in cui un
individualismo senza princìpi pretendeva di sostituire quegli alti ideali di
solidarietà che erano stati l’anima del glorioso partito socialista italiano
e della Costituzione repubblicana? La pratica “corsara”, che per certi suoi
interventi gli aveva fatto scegliere come protervo pseudonimo il nome di Ghino
di Tacco, bandito di strada del XIII secolo, il suo gusto sultanesco che gli
faceva trascinare per il mondo una piccola corte di “nani e ballerine” (per
dirla con un suo eminente compagno di partito), la sua superba convinzione che
un uomo come lui non poteva sottoporsi al giudizio dei tribunali, ebbe riflessi
devastanti nell’esercizio del potere e nella crisi della politica italiana:
Craxi fu, per molti versi, non soltanto il fedele amico e protettore di
Berlusconi ma anche il suo ideale precursore. È a lui più che ad ogni altro
dobbiamo se viviamo oggi in uno stato in cui il potere mediatico di un ricco può
oscurare la Costituzione.
In Parlamento ho fatto parte di un gruppo (quello dei deputati della Sinistra
Indipendente) duramente opposto al governo craxiano ma non, credo di poter dire,
fazioso. Sono fra quelli che applaudirono Craxi per Sigonella e per gli aiuti
alla causa palestinese: ma la sua azione di statista ebbe, anche in politica
estera, aspetti nefasti: non posso, per esempio, dimenticare, per averne visto
gli effetti con i miei occhi, la protezione continuata e vergognosa che egli
diede alla corrottissima e sanguinaria dittatura somala di Siad Barre e del suo
clan. Che poi D’Alema pensasse, dieci anni fa, che a un condannato in
contumacia e latitante si dovessero fare funerali di Stato e che oggi siano in
tanti a parlare non soltanto di riabilitazione ma anche di celebrazione è uno
dei tanti segni che la fine del secolo XX e l’inizio del XXI si portano ancora
dietro il rifiuto di riconoscere quando un re è nudo.
* * *
Questa LETTERA (che interrompe il mio silenzio di cinque mesi in seguito a una
rovinosa caduta e conseguente frattura di tre vertebre, e che vuole essere
innanzi tutto un ringraziamento ai tanti e tante che mi sono stati vicini in
quel frangente), era già pronta per la spedizione quando sono arrivate da
Rosarno le tragiche notizie dell’insurrezione dei raccoglitori di frutta e
della caccia al “negro”. È domenica. Mi domando, se posso andare a messa,
come faccio abitualmente. Mi martella in testa un brano del vangelo di Matteo:
“Se stai presentando la tua offerta all’altare e ti viene in mente che un
tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta e va’ a
riconciliarti con lui. Tornerai dopo all’altare”. Penso a quei mille poveri
espulsi da Rosarno e mi domando se nel terrore che li mette in fuga, nel dolore
dello sfruttamento, nell’esperienza di una vita da schiavi, si domandino, si
siano mai domandati, se davvero l’Italia si possa definire una nazione
cristiana; e se non ci gridino, nella tragedia che li travolge, che sì: hanno
qualcosa contro di noi.
Decido di andare a messa, egualmente. Sento il bisogno del tepore di una comunità
che preghi con me, esprima, almeno nel suo intimo, energie d’amore: penso che
non posso chiudermi in un dolore “privato”, è con i fratelli e le sorelle
con cui spartisco l’eucarestia che debbo vivere il rimorso per tanta
ingiustizia fatta ai poveri con le nostre omissioni quando non le nostre opere:
nostre, di noi Chiesa italiana. Domani rifletterò da cittadino ma oggi sento di
dovermi innanzi tutto confrontare con il vangelo.
Risento ancora la voce buona di papa Giovanni: “La Chiesa, quale è e vuole
essere, è la Chiesa di tutti ma particolarmente la Chiesa dei poveri”.
Risento la voce profonda e commossa di Paolo VI che ammonisce: “Ostinandosi
nella loro avarizia, i ricchi non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la
collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili”; e proclama agli elogiatori
dell’elemosina: “La giustizia è la misura minima (minima!) della carità”.
Mi domando: nelle nostre comunità viviamo – e rendiamo visibile – questo
volto della Chiesa, questa sua fondamentale vocazione di riconoscimento del
volto del Cristo nel volto del povero? O ci siamo ridotti, pian piano, a un
agglomerato di persone che cercano avidamente coraggio e consolazione per le
loro privatissime paure, che dedicano al culto dei santi una venerazione assai
superiore a quella per il Signore, che riempiono di quando in quando i grandi
spazi delle celebrazioni papali ma subito dopo rifluiscono nel chiuso delle
proprie case e nel rifiuto di ogni coerenza? Schiacciate, talvolta, da un amaro
senso di impotenza, anche se non hanno mai tentato l’esperienza di un impegno?
Questa fede, “morta senza le opere”, raggruppa senza problemi, nel suo seno,
anche mafiosi e uomini politici cui l’acqua benedetta sembra lavare colpe
senza pentimenti o addirittura annegare speranze e mormorii della coscienza.
Voglio dirlo: personalmente dedico più tempo a un continuo censimento delle
testimonianze ecclesiali di fraternità (talvolta quasi eroiche) che ai guasti
di un conformismo che non riesce più a celare paure ed ottuso egoismo, e la mia
ricerca mi riscalda il cuore: quante Caritas, parrocchie, organizzazioni non
governative, centri missionari (penso, per esempio, al meraviglioso Centro
Astalli di Roma) lavorano per una fraternità generosa. Ma non per questo sono
cieco di fronte alle caratteristiche dell’Italia d’oggi: la più evidente
delle quali è che la scarsità del nostro impegno di cristiani ha dato vita a
una nazione nella quale (e soprattutto nelle zone tradizionalmente considerate
“bianche”) ogni formazione politica sa di dover fare i conti con forze
regressive che amano presepi e crocifissi ma ignorano che Gesù non sta dietro
il sughero dei presepi o nel povero gesso degli “oggetti d’uso” sui muri
delle aule.
Sta, per sua chiara proclamazione, nella carne dei poveri, soffre della miseria
di interi popoli, e dello sfruttamento di quelli che sono fra noi. Viviamo ormai
in un paese in cui l’ottusa noia di giovani senza ingresso nel campo del
lavoro moltiplica le infami crudelissime aggressioni ai senza tetto, in cui
bande di italiani attaccano campi rom invece di premere per un inserimento dei
nomadi nel tessuto delle città, in cui gran parte della ricchezza si basa sul
lavoro “nero”: quello offerto da piccoli imprenditori senza scrupoli e
quello coordinato dalle grandi centrali della mafia e della ndrangheta. Viviamo
in un paese il cui ministro degli interni chiede che si diventi più
“cattivi” nei confronti dei migranti, in una nazione, in cui, in contrasto
con la Costituzione e con la Dichiarazione dei diritti umani, viene negato asilo
ai profughi politici, e gli aiuti allo sviluppo dei paesi poveri sono ridotti a
pura facciata, ma il presidente del Consiglio scrive al papa, all’inizio del
2010, che «i valori cristiani sono sempre presenti nell’azione del governo da
me presieduto».
Impunemente: nel senso che assai raramente le nostre “gerarchie religiose”
contrastano questa beata coscienza, di uno statista che concede mano libera al
razzismo di un parte della sua compagine governativa. Papa Giovanni ci ha
insegnato che il confiteor non va battuto sul petto degli altri e quindi occorre
che ciascuno di noi riveda la propria vita. Ma è fuor di dubbio, a me pare, che
salvo splendide eccezioni, la voce dei pastori della Chiesa italiana è flebile
nel rivolgere il “non ti è lecito!” ai responsabili dello sfruttamento
delle paure dei cittadini; e i documenti della CEI sono spesso vaghi nel
condannare “ogni violenza”. Mi colpisce e mi addolora una constatazione:
mentre gruppi di laici lavorano nel campo della solidarietà insieme ai
sacerdoti delle congregazioni missionarie, la contestazione al razzismo come
ideologia radicalmente contraria al vangelo è assai minore fra il clero
diocesano, quello più legato disciplinar-mente ai vescovi e più a contatto con
i “fedeli messalizzanti”.
Il razzismo fomentato dalla Lega e tradotto in leggi, decreti e prassi dal
governo nazionale e da una pletora di governi regionali e amministrazioni
comunali sembra a molti “buoni cattolici” soltanto una spiacevole
contingenza, ben meno grave di tanti altri peccati e, del resto, non priva di
ragioni; che esso semini un odio che abortisce speranze umane e neghi la dignità
di esseri viventi, sia causa di immensi dolori non dovrebbe portare i credenti
(e, naturalmente, per primi, i loro pastori) alla chiarezza di un giudizio,
troppo spesso, oggi, inquinato da interessi materiali? Non si tratta di emanare
scomuniche ma di esplicitare la radicalità del vangelo. Ricordo di essermi
sentito rovesciare come un guanto, ma anche spinto e sostenuto a un cammino
luminoso, il giorno, ormai lontano cronologicamente ma non sbiadito nel mio
cuore in cui un’assemblea mondiale delle Chiese protestanti, anglicane ed
ortodosse, cui avevo partecipato con tanti altri cattolici “conciliari”,
proclamò: “Chi non difende i poveri, non cerca che essi ricevano giustizia e
dignità, non vede in essi la presenza del Cristo, costui è altrettanto eretico
di chi nega l’uno o l’altro articolo del Credo”