di
Vito Mancuso
in
“la Repubblica” del 26 febbraio 2010
A distanza di due anni dal
duro attacco contro L’anima e il suo destino a firma di padre Corrado Marucci,
“La Civiltà Cattolica” (quaderno n° 3831) torna a criticare frontalmente
il mio pensiero. Lo fa con un
articolo più profondo, meno aggressivo e apparentemente meno insidioso del
precedente, scritto da padre Giovanni Cucci sul mio ultimo saggio, La vita
autentica. Dopo aver presentato finalità e struttura del mio lavoro a cui viene
persino riconosciuto che “non mancano osservazioni interessanti e
gradevoli”, “La Civiltà Cattolica” scrive che “la conduzione del
discorso risulta molto ambigua ed equivoca, per non dire contraddittoria” e
giunge a esplicitare la sua critica con questa domanda: “In fin dei conti, per
Mancuso, Dio è necessario o no ai fini del discorso sull’autenticità? Le
risposte che giungono dal libro non consentono di stabilirlo, poiché si afferma
in una pagina quanto viene negato alla pagina successiva”.
Sono accuse senza fondamento.
Ma prima di argomentare la mia replica desidero chiarire quello che ritengo il
vero obiettivo della rivista dei gesuiti, le cui bozze, com’è noto, passano
al vaglio della Segreteria di Stato vaticana: l’obiettivo, a mio avviso,
consiste nel mostrare ai cattolici che a me non è concesso “presentarsi come
un teologo cristiano”. È questo il vero disegno della “Civiltà
Cattolica”, e forse di qualcun altro dietro di essa.
La questione sollevata è tale
da riguardare da vicino ogni uomo pensante: “In fin dei conti, Dio è
necessario o no ai fini del discorso sull’autenticità?”. Padre Cucci, per
il quale la risposta è un inequivocabile sì, mi accusa di presentare una
risposta “ambigua”, “equivoca”, “contraddittoria”. Io, al contrario,
ritengo di aver espresso il mio pensiero molto chiaramente, oserei dire
“papale-papale” se non temessi che qualcuno poi concluda che mi sono montato
la testa. Ecco ciò che ho scritto nel mio libro: “Per una vita autentica è
necessario credere in Dio? Sono convinto di no”. Lo ribadisco:
Poi il mio ragionamento
proseguiva così: “Ritengo, però, che non sia possibile una vita pienamente
autentica senza credere nel bene e nella giustizia, e che se un uomo crede nel
bene e nella giustizia deve poi giustificare a se stesso perché lo fa e provare
a pensare quale sia la concezione dell’essere più ragionevole che giustifica
tale suo affidamento esistenziale al bene e alla giustizia”. La vita
quotidiana quale ciascuno sperimenta non è tale da mostrare inequivocabilmente
il primato del bene e della giustizia, anzi al contrario sono spesso i furbi e
gli ingiusti a prevalere. Per praticare il bene e la giustizia e risultare
interiormente puliti occorre quindi una certa “fede” in questi valori, senza
la quale è quasi inevitabile che la sola verifica sperimentale porti al
cinismo, a non credere più a nulla, a sorridere amaramente al solo sentire
parlare di etica. Affermo quindi che per una vita autentica, se non è
necessaria la fede in Dio, è però necessaria la fede nel bene e nella
giustizia quali dimensioni più alte del vivere. Affermo cioè che la pienezza
della vita suppone il riconoscimento pratico del primato dell’etica e che il
vero uomo non è il ricco, non è il potente, non è il dotto, non è il pio, ma
è il giusto, di quella giustizia che non è fredda legalità ma saggezza del
bene. Per essere giusti, però, in un mondo che spesso giusto non è, occorre
avere fede nella giustizia (o, che è lo stesso, nell’armonia dell’essere).
Questo mio ragionamento per
“La Civiltà Cattolica” condurrebbe a escludere la possibilità di Dio e di
conseguenza a minare il mio statuto di teologo. Le cose però non stanno per
nulla così, perché il mio percorso pone semmai le basi per una rinnovata
fondazione del discorso teologico, andando a indagare la profondità
dell’essere che il primato dell’etica (smentito dalla cronaca, ma avvertito
dalla coscienza) porta con sé. È quanto sosteneva già Immanuel Kant nella
Critica della ragion pura: “Io avrò fede nell’esistenza di Dio e in una
vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché
in tal caso verrebbero scalzati quei principi morali cui non posso rinunciare
senza apparire spregevole ai miei stessi occhi”. Una coscienza matura non fa
il bene perché lo dice il papa, eseguendo quello che dice il papa,
all’insegna della morale eteronoma; la coscienza matura fa il bene
autonomamente, lo fa perché sente che è suo dovere farlo, senza temere, quando
è il caso, di andare persino contro quello che dice il papa (come quei
cattolici che nell’Ottocento si battevano per la libertà religiosa,
condannata aspramente dai papi del tempo). Mi chiedo però di che cosa sia segno
questo senso del dovere rispetto al bene che la coscienza avverte dentro di sé,
mi chiedo che cosa dica dell’uomo. E rispondo dicendo che esso è
l’attestazione di una dimensione più profonda dell’essere, la quale, se
risulta così affascinante e normativa per la coscienza retta, è perché ne
costituisce l’origine da cui viene e il fine verso cui tende, ovvero quel
“principium universitatis” che Tommaso d’Aquino in Summa contra gentiles
I,1 dice essere il nome filosofico di Dio. “In
fin dei conti, per Mancuso, Dio è necessario o no ai fini del discorso
sull’autenticità?”, si chiedeva padre Cucci. Spero che a questo punto il
mio pensiero risulti chiaro anche per lui: soggettivamente no (la fede non è
necessaria), oggettivamente sì (la giustizia è indispensabile).
Questo mio legare Dio all’oggettività del bene e della giustizia, ben
lungi dall’escluderlo come mi si accusa, riproduce la medesima prospettiva di
Gesù: “In quel giorno molti mi diranno: «Signore, non abbiamo forse
profetato nel tuo nome?». Ma io dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti.
Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità»” (Matteo 7,22-23).
È solo la concretezza della giustizia quale forma stabile della nostra più
intima energia vitale a condurre in quella dimensione eterna dell’essere che
chiamiamo Dio, mentre non serve a nulla riempirsi la bocca delle più devote
professioni di fede se, dentro, si è iniqui (“non vi ho mai conosciuti”).
Rimarrebbe da affrontare il discorso altrettanto importante sulla logica
alla guida della natura e della storia, se essa sia di tipo personale come vuole
padre Cucci, oppure impersonale come sostengo io, e spero di poterlo fare in un
prossimo articolo. Per ora concludo dicendo che sarei lieto se “La Civiltà
Cattolica” rivedesse il duro e ingiusto giudizio su di me e sul mio piccolo
saggio, ma temo che ciò non avverrà. In ogni caso non ho mai aspirato al
patentino ufficiale di teologo cattolico-romano, visto che da tempo parlo di una
teologia “laica”, cioè abitata dall’aria pulita della libertà di
pensiero, unica condizione, a mio avviso, perché l’occidente torni a
interessarsi della sua religione.