Zingari le radici dell'odio
di Barbara Spinelli
“La Stampa” del 29 agosto 2010
E’
utile ricordare come fu possibile, appena sette-otto decenni fa, la distruzione
degli zingari nei campi tedeschi. Non fu un piano di sterminio accanitamente
premeditato, in origine non nacque nella mente di Hitler. Nel libro Mein Kampf
si parla di ebrei, non di zingari. La distruzione (in lingua rom Poràjmos, il
«grande divoramento») ha le sue radici nella volontà tenace, insistente,
delle campagne e delle periferie urbane tedesche: un fiume di ripugnanza
possente, antico, che la democrazia di Weimar non arginò ma assecondò. Chi ha
visto il film di Michael Haneke Il nastro bianco sa come prendono forma i furori
che accecano la mente, escludono il diverso, infine l’eliminano perché sia
fatta igiene nella famiglia, nel villaggio, nella nazione. Anche
l’antisemitismo ha radici simili, tutti i genocidi sono favoriti da silenziosi
consensi. Ma l’odio dei Rom e dei Sinti (zingari è dal secolo scorso nome
spregiativo) riscuote consensi particolarmente vasti.
È un odio che ancor oggi s’esprime liberamente, nessun vero tabù lo vieta:
in parte perché è sepolto nelle cantine degli animi, dove vive indisturbato;
in parte perché è un’avversione non del tutto razziale; in parte perché il
loro genocidio non ha generato l’interdizione sacra tipica del tabù. A
differenza di quello che accadde per gli ebrei, nel dopoguerra non si innalzò
in Europa una diga fatta di vergogna di sé, di memoria che sta all’erta. Si
cominciò a parlare tardi degli zingari, i libri che narrano la loro sorte sono
sufficienti ma non molti. E’ strano come Sarkozy, figlio di un ungherese, non
abbia ricordo, quando decide l’espulsione dei rom, di quel che essi patirono
in Europa orientale. È strano che non ricordi quel che patiscono ancor oggi nei
Paesi da cui fuggono, perché l’Est europeo è uscito dalle dittature
denunciando il totalitarismo comunista ma non i nazionalismi etnici, non
l’ideologia che mette il cittadino purosangue al di sopra della persona: in
Romania, Bulgaria, Ungheria, i rom sono trattati, nonostante il genocidio, come
sotto-persone. Rimpatriarli spesso è condannarli ancor più. È anche
un’ipocrisia, perché come cittadini europei i rom possono tornare in Francia
o Italia senza visti. Spesso vengono chiamati romeni. Sarebbe bene sapere che i
Rom sono detestati dalla maggioranza dei Romeni.
Ovunque, la crisi economica li trasforma in capri espiatori. Il più delle volte
non è la razza a svegliare esecrazione. È il modo di vivere itinerante.
L’Unione, allargandosi nel 2004 e 2007, ha accolto anche questa comunità
speciale, per vocazione non sedentaria, originaria dell’India, insediatasi nel
nostro continente cinque-sei secoli fa, ripetutamente perseguitata. Una
direttiva europea restringe la libera circolazione se l’ordine pubblico è
turbato, ma la direttiva vale per i singoli e comunque decadrà nel dicembre
2013. Non è chiaro chi oggi abbia ricominciato questa storia di esclusioni, di
muri che separando i nomadi dal cittadino «normale» impedisce loro di divenire
sedentari se vogliono, di trovar lavori, di non cadere nelle mani di mafie. È
probabile che Berlusconi e Bossi abbiano svolto un ruolo d’avanguardia: un
ruolo di «modello per l’Europa», ha detto monsignor Giancarlo Perego,
direttore della Fondazione Migrantes della Cei (La Stampa, 22 agosto). Molti
governi dell’Est si sono sentiti legittimati dall’Italia, Paese fondatore
dell’Unione. Ora Sarkozy si fa megafono del fiume d’esecrazione. La parola
che ha ripetuto più volte, parlando di immigrati, di rom e di delinquenza a
Grenoble, era «guerra».
Nello stesso discorso, il Presidente ha annunciato che il cittadino di origine
straniera colpevole di delitti perderà la nazionalità francese (la parola décheance,
revoca, rimanda a déchet, pattume). La democrazia non ci protegge da simili
deviazioni, proprio perché la volontà del popolo è il suo cardine. Giuliano
Amato lo spiega bene, in un articolo sul Sole-24 Ore del 22 agosto: ci sono
momenti, e la crisi economica è uno di questi, in cui può crearsi un conflitto
mortale fra i due imperativi democratici che sono l’esigenza del consenso e
quella di preservare la propria civiltà. Il leader democratico ansioso di
raccogliere immediati consensi vince forse alle urne, ma non salva
necessariamente la civiltà («Non a caso nell’assetto istituzionale delle
democrazie si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali
prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia,
in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della
civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno
sensibili»). Sono rari, nei moderni Stati-nazione, i leader che sappiano tener
conto di ambedue gli imperativi, e nei momenti critici anteporre le esigenze
della civiltà a quelle del consenso. Quando Obama si dichiara non contrario
alla costruzione di una moschea nei pressi di Ground Zero difende la
costituzione laica e la storia americana lunga, non la storia tra un sondaggio e
l’altro. Il consenso sente di doverselo creare a partire da qui, sapendo che
può anche perderlo. In genere, quando i governanti esaltano ogni minuto la
sovranità e le emozioni del popolo non è il popolo a governare: sono le
oligarchie, i poteri segreti, le mafie.
Anche la nostra Costituzione ha lo sguardo lungo, e non a caso dà la preminenza
alla persona, più ancora che al cittadino. Tutti gli articoli che concernono i
diritti fondamentali (libertà, divieto della violenza, inviolabilità del
domicilio, responsabilità penale, diritto alla salute) parlano non di cittadini
ma di persone o individui, e precedono la Costituzione stessa. Il nomadismo è
una forma di vita che tende a scomparire, ma resta una forma della vita umana.
Il non aver fissa dimora, il vivere in roulotte, il muoversi in carovane («in
orde», era scritto nei decreti d’espulsione ai tempi di Weimar e di Hitler):
tutto ciò è parte della cultura dei Rom e Sinti. Lo è anche la scelta di
adottare la religione dei Paesi in cui vivono: è l’integrazione che
prediligono da secoli. Come tutti i cittadini anch’essi delinquono, specie se
vessati. I più sono cittadini plurisecolari dei Paesi in cui girovagano o si
sedentarizzano. Da noi, l’80 per cento dei Rom sono italiani. Non sono mancate
le proteste contro la politica francese (700 rimpatri entro settembre):
nell’Onu, nell’Unione europea. Hanno protestato anche importanti leader
della destra: primo fra tutti Dominique de Villepin, secondo cui oggi esiste
sulla bandiera una «macchia di vergogna». Resta tuttavia il fatto che i Rom
non hanno un Elie Wiesel, che in loro nome trasformi il divieto di odio in tabù.
Possono contare solo sulla Chiesa, memore della parabola del Samaritano e della
storia d’Europa.
L’Europa e le costituzioni postbelliche sono state escogitate per evitare
simili ricadute, sempre possibili quando il nazionalismo etnico di tipo
ottocentesco riprende il sopravvento. Le strutture imperiali erano più propizie
alla diversità, e il compito di uscire dalle gabbie etniche e restaurare
autorità superiori a quelle degli Stati sovrani spetta al potere superiore che
in tanti ambiti giuridici oggi s’incarna nell’Unione. È l’Europa che deve
ripensare lo statuto dei Rom: permettendo loro di continuare a viaggiare, di
trovar lavoro, di difendersi dalle mafie, di rispettare la legge e l’ordine.
Nel quindicesimo secolo, quando migrarono in Europa, gli zingari avevano una
protezione-salvacondotto universale, non nazionale o locale: la protezione del
Papa e quella dell’Imperatore. Solo una protezione di natura universale può
garantire «le legittime diversità umane» cui ha accennato Benedetto XVI
nell’Angelus pronunciato in francese il 22 agosto. Oggi i Rom hanno la
protezione del Papa. Quella dell’Imperatore (della politica) è crudelmente
latitante