Quando la guerra è l’extrema ratio

 

di Bruno Quaranta

 

La Stampa” del 18 maggio 2011

 

Sempre fedele al dialogo, Norberto Bobbio, il filosofo scomparso nel 2004. Una disposizione civile che assurge a manifesto nel saggio introduttivo di Politica e cultura , «Invito al colloquio». Tra gli interlocutori del professore, Enrico Peyretti, che fondò giusto quarant’anni fa Il foglio, mensile di cattolici torinesi critici, di respiro conciliare, maturato non a caso nella stagione di Padre Pellegrino.

 

Vent’anni di confronto su politica, fede, nonviolenza si ritrovano nel libro di Enrico Peyretti, presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961, docente di storia e filosofia nei licei, Dialoghi con Norberto Bobbio , edito da Claudiana (pp. 255, 15). È una sorta di journal , dove leco delle conversazioni nella casa del senatore, in via Sacchi, sintreccia con le riflessioni epistolari. Trentanove lettere inedite sono il fil rouge di questi Dialoghi . Pubblichiamo in anteprima la

missiva che Bobbio scrisse il 16 agosto 1993 a Breuil-Cervinia dove stava trascorrendo le vacanze. Era in corso la guerra nell’ex Jugoslavia, un’ulteriore occasione per riflettere, per domandarsi, se esista «una guerra giusta».

 

Il rifiuto totale della violenza fa prosperare la razza dei violenti

 

di Norberto Bobbio

 

“La Stampa” del 18 maggio 2011

 

Caro prof. Peyretti, da tempo, da quando ho ricevuto la sua lettera della fine di luglio, rimugino questa risposta. Non si preoccupi: non rispondo per cortesia, né tanto meno per obbligo, ma per il bisogno e il piacere di chiarirmi le idee.

Sono, o credo di essere, un uomo pacifico, ma non sono, e mi considero sempre meno, un pacifista assoluto, come lei e i suoi amici. (Sono, se mai, un pacifista relativo, ma questo è un lungo discorso che faremo se mai una prossima volta). (Non sono, del resto, né un liberale assoluto, né un

socialista assoluto non essendo l’assolutismo una mia categoria mentale). Come uomo pacifico, o, se vuole, come uomo di pace, non ho mai portato armi, neppure durante la Resistenza. Agisco generalmente da non violento, pur col dubbio che la mia non violenza sia stata spesso quella del debole e non quella del forte.

Personalmente, come individuo singolo, sono, ripeto, un uomo pacifico. Ma io non sono solo al mondo. Vivo con altri, con moltissimi altri, con tutti gli altri. La massima che seguo: «Meglio morire come Abele che vivere come Caino» vale per me, come uomo singolo, che può decidere liberamente del proprio destino. Ma vale anche per me, come uomo che vive in società, in una società in cui non posso chiudere gli occhi (e se li chiudo è soltanto per viltà) di fronte all’esistenza di uomini e gruppi violenti (e lo stesso vale nella società degli Stati)? Sono per la strada: a un tratto vedo un uomo che maltratta un bambino. Siccome sono un non violento sto a guardare? Non intervengo, non corro a chiamare la polizia che so in anticipo che userà violenza contro il violento? lascio che il bambino venga maltrattato e il violento rimanga impunito?

Possibile che non venga mai il sospetto al pacifista assoluto che il rifiuto totale della violenza contribuisca a far prosperare la razza dei violenti, e finisca per aumentare la violenza nel mondo? (L’oppressione non è una forma di violenza continuata?).

Lei sembra addirittura dar credito a coloro che mettono in dubbio la giustezza della guerra contro Hitler. Lei è allora disposto ad accettare le conseguenze di questo aspetto del continuato revisionismo di questi anni – che io considero stolido e irresponsabile: «Meglio nazisti che morti»? Ripeto: io posso decidere di me quello che credo. Ma non posso decidere quello che voglio in un mondo, che è stato dominato, come lei stesso riconosce, dalla volontà di potenza. Se i Serbi, una volta vinta la guerra nell’ex Jugoslavia, pretendessero anche Trieste, come ci comporteremo? Lasciamo fare perché siamo pacifisti, e invocheremo l’art. 11, ecc. ecc. Lei non pensa che dichiarare sin d’ora che noi non combatteremo, incoraggi l’aggressore? Lei non pensa che l’etica delle buone intenzioni, anzi buonissime, non debba essere accompagnata, nei rapporti di convivenza, dalletica della responsabilità? A proposito del disarmo, cavallo di battaglia dei pacifisti: che io butti via le mie armi non serve a niente. Né serve a qualche cosa che le buttino via tutti tranne uno, perché quest’uno diventerà il padrone della terra.

Continuare a dichiarare il proprio pacifismo assoluto serve a salvare la propria anima. Serve anche a salvare il mondo?

Alla base del nostro dissenso c’è forse la sua affermazione che le tendenze dominatrici e distruttrici sono patologiche e non fisiologiche nella natura umana. Tanto lei che io sappiamo ben poco della natura umana. Ma dalle testimonianze della storia e dei fatti che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi, sarei più prudente, o almeno distribuirei in parti eguali quello che appartiene alla grandezza e quello che appartiene alla miseria dell’uomo. In questi giorni i giornali ci danno contemporaneamente notizia della nobile gara di solidarietà per salvare qualche bambino di Sarajevo, e della brutale uccisione nelle grandi città del Brasile dei «bambini di strada», come fossero topi. Che cosa è più fisiologico, che cosa è più patologico?

Accolga i miei più cordiali saluti, e i miei ripetuti rallegramenti per il foglio.