CANONIZZAZIONI, UNA LUNGA STORIA DI ABUSI.
LE RIFLESSIONI DI UN EX FUNZIONARIO DEL SANT’UFFIZIO
ADISTA n°38
DOC-2350. MADRID-ADISTA. Che tirare in ballo Dio nelle canonizzazioni, attraverso i miracoli, fosse una puerile assurdità, Celso Alcaina, già funzionario dell’ex Sant’Uffizio sotto il pontificato di Paolo VI e docente alle università di Comillas e Villanova, lo aveva già sottolineato nella maniera più esplicita lo scorso anno (v. Adista n. 33/10). «Un dio che fa discriminazioni tra le sue creature – scriveva allora Alcaina – non è Dio»: coinvolgerlo in certi fatti e per certi fini non è altro che «una forma di infantilismo che comporta la negazione di Dio». Alla fine dello scorso marzo, nell’imminenza della controversa beatificazione di Karol Wojtyla, Alcaina è ritornato sulla questione, e lo ha fatto immaginando un papa rivoluzionario, di nome Giovanni XXV, che, in un futuro non lontanissimo, nel 2031, decida, insieme ad altre drastiche misure di rinnovamento, di chiudere la Congregazione per le Cause dei Santi. Ripercorrendo rapidamente la storia delle canonizzazioni dalle origini della Chiesa ai tempi nostri, e illustrando con brevi tratti la complicata e costosa procedura richiesta, Alcaina sottolinea, non senza ironia (specialmente in riferimento ai miracoli che, guarda caso, riguardano sempre e solo fatti di guarigione), abusi, arbitrarietà e palesi ingiustizie che segnano l’intero processo del riconoscimento della santità.
E ricordando quanto si era detto a proposito del fondatore dei Legionari di Cristo Marcial Maciel – che, cioè, «se papa Wojtyla fosse vissuto dieci anni di più», sarebbe già stato proclamato beato o santo – Alcaina evidenzia come la possibilità di errore sia «consustanziale all’essere umano, anche al vescovo di Roma e alla sua Curia». «Deploriamo - conclude - che nell’elenco di santi cattolici si leggano nomi di persone per nulla esemplari (alcune non sono neppure esistite), per quanto abbiano realizzato o realizzino “miracoli”. Ragione, più che convincente, per separare Dio dalle nostre decisioni».
Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, l’intervento di Celso Alcaina, pubblicato sul suo blog il 29 marzo (http://blogs.periodistadigital.com/enigma.php). (c. f.)
SANTO È DIO
di Celso Alcaina
Ieri, il nuovo portavoce del Vaticano, cavaliere Bersani, lo ha annunciato in maniera diretta. Giovanni XXV ha deciso. Chiuderà la Congregazione per le Cause dei Santi. Il relativo Motu Proprio, già firmato, sarà reso pubblico la prossima settimana. Insieme a una cosa meno istituzionale ma più mediatica. Il papa non vuole essere chiamato “Santità”, “Santo Padre” e via dicendo.
La drastica misura, che analizzerò dopo, segue altre non meno importanti e di impatto. In appena sei mesi di pontificato, il papa filippino ha soppresso il Corpo Diplomatico e ha rinunciato alle prerogative concesse dal Concilio Vaticano I al vescovo di Roma. Vi sono segnali che dissolverà lo Stato della Città del Vaticano. (…). 15 giorni fa, il segretario generale dell’Onu ha visitato con discrezione il Palazzo Apostolico.
Ancora, Giovanni XXV ha deciso di non partecipare, direttamente o tramite rappresentante, a riunioni o congressi ecumenici fin tanto che si presenterà con il titolo di capo di Stato e la qualifica di infallibilità. Vuole prendervi parte come leader religioso sullo stesso piano degli altri. Naturalmente, rinuncerà ai titoli di “Vicario di Cristo”, “Pastore Universale”, e simili.
Sono note le rabbiose proteste di alti ecclesiastici, compresi alcuni cardinali e funzionari vicini al papa. La sempre immobilista Curia. Conosciamo anche l’eloquente silenzio di molti vescovi, preti, religiosi e soprattutto dei numerosi istituti e movimenti conservatori che hanno pullulato negli ultimi cento anni. Un silenzio fatto di sbalordimento e di insicurezza. Il suolo che calpestano frana sotto i loro piedi. Per contrasto, gran parte dei fedeli e molti intellettuali e giornalisti, cattolici o meno, applaudono le riforme.
I cardinali elettori non potevano immaginare che lo sconosciuto cardinale arcivescovo di Zamboanga, Pedro Ceballos, di un’antica casata spagnola, si comportasse in tal modo. Temono, a ragione, che i cambiamenti proseguano e che la Chiesa cessi di esistere o venga completamente stravolta. Avevano puntato su un ecclesiastico giovane, energico, devoto, con idee nuove. Qualcuno diverso da un europeo e da un occidentale. Ed eccolo qui.
Già lo aveva fatto nella sua arcidiocesi filippina e nella precedente sede di Talibón. Mons. Ceballos aveva cercato nel suo ministero qualcosa di molto diverso da quanto offriva una Chiesa potente, emula ed erede dell’impero romano. Si sentiva un umile e intrepido servitore, anche dopo che Giovanni XXIV, il papa breve, lo aveva creato cardinale. Nel suo Paese, e non solo tra i cattolici, era noto come una figura di rottura, un eretico pieno di bontà. Senza propalare la sua dissidenza, la praticava partendo dal Vangelo. Un rivoluzionario. Per difendere i poveri e gli sventurati era stato quasi linciato dalle mafie e processato per sedizione. Grazie al Conclave, conosciamo - li assaporiamo ancora - gli affettuosi aneddoti della sua vita, una vita più prossima a un Francesco d’Assisi che a un Ratzinger, un Wojtyla o un Pacelli.
La soppressione del Dicastero delle Cause dei Santi non sarà l’ultimo colpo nello smantellamento di una casa eccessivamente barocca e scomoda, ormai inabitabile per la famiglia cristiana, per i seguaci del Nazareno. Ma è molto significativa. È un passo verso l’autenticità, l’umiltà, l’avvicinamento a Gesù, fondamento del cristianesimo.
UNA “PIA CREDENZA”
L’attuale Congregazione per le Cause dei Santi data dal 1969. Fu Paolo VI, con la sua Costituzione Apostolica Sacra Rituum Congregatio a dargli autonomia propria, separandola dalla Congregazione dei Riti. (…).
L’origine delle canonizzazioni risale all’apoteosi pagana. La deificazione, alla loro morte, di imperatori e di altre illustri personalità. Nel 1734, l’erudito Prospero L. Lambertini, in seguito papa Benedetto XIV, in un’opera dalle tinte apologetiche (De Servorum Dei Beatificatione), respinge tale teoria con argomenti poco convincenti. In ogni caso, storicamente, tutte le società e le istituzioni hanno onorato la memoria dei loro eroi, proceri o martiri. Vari Padri della Chiesa – Agostino, Cirillo, Cipriano – parlano del culto per i martiri cristiani, che bisogna onorare e ricordare (…). Così, Eusebio (Hist. Eccl. IV, 23), riferendosi al martire Policarpo, scrive: «Abbiamo riunito le sue ossa, più care per noi delle pietre preziose e più pure dell’oro… E voglia Dio concederci di celebrare l’anniversario di questo martire con gioia, facendo memoria di coloro che lottarono in glorioso combattimento e ammaestrando con il loro esempio quelli che verranno dopo di noi». E Tertulliano (De resurrectione carnis, XIII) limita chiaramente ai martiri l’onore della venerazione.
Per i primi tre secoli furono i vescovi locali ad avere la responsabilità di determinare se un martire fosse morto per la sua fede. Il vescovo, in accordo con i vescovi vicini, proclamava vindicatum questo martire e permetteva il suo culto.
Solo a partire dal IV secolo i “confessori” vennero ammessi alla venerazione pubblica in maniera simile a quella dei martiri. I “confessori” erano cristiani esemplari che, tuttavia, non erano morti in difesa o a causa della loro fede. Nella misura in cui il cristianesimo si espandeva e si istituzionalizzava, si andavano organizzando anche le canonizzazioni. A poco a poco, la competenza per concedere onore ecclesiastico pubblico passò dal vescovo locale al primate o al patriarca della regione. La rispettiva venerazione si concedeva solo per il territorio della giurisdizione ecclesiastica interessata.
Nel corso di tutto il primo millennio, si verificarono abusi tanto da parte dei fedeli quanto da parte della gerarchia. Nel XII secolo la preponderanza del vescovo di Roma era già un fatto. Fu allora che Roma pretese di restringere la potestà degli altri vescovi in questo campo. I candidati alla santità avrebbero dovuto essere esaminati in concilii generali. Così decretarono Urbano II, Callisto II ed Eugenio III. Carta straccia. (…).
In tutto il mondo cattolico, furono molti i vescovi e le comunità cristiane che non prestarono ascolto ai decreti romani. Gli abusi continuarono. Finché Urbano VIII, nel 1634, non pubblicò una Bolla che riservava al vescovo di Roma il diritto di canonizzazione. A partire da allora, fu proprio il vescovo di Roma a perpetrare tali abusi. Roma procedette a discriminare, a volte per motivi spuri. Ad alcuni beati concesse privilegi di santi. Alcuni candidati vennero dispensati dalla normale procedura. Altri dall’obbligatorio “miracolo”. (…). I procedimenti e i termini per iniziare o concludere il processo subirono modifiche in base alle preferenze e agli interessi strategici di Roma. Basti considerare, riguardo al presente, i casi di Teresa di Calcutta, Josémaría Escrivá o il «santo subito» Giovanni Paolo II.
I teologi del XVII secolo discussero sull’eventuale infallibilità papale delle canonizzazioni. Fu una delle tante discussioni, apparentemente bizantine, che si tennero nelle nostre Facoltà teologiche fino alla fine del secolo scorso. (…). San Tommaso (Qodlib. IX, 16) dice che è una «pia credenza» ritenere che la Chiesa sia libera da errore in questa materia.
SANTO CHI PAGA
La procedura stabilita per le beatificazioni e le canonizzazioni è estremamente complessa, tale da scoraggiare chi pretenda avventurarsi per questi sentieri. Oltre all’interminabile burocrazia, interviene la difficoltà economica. Il denaro è il fattore più importante. Ma in tutto, anche nell’aspetto economico, entra in gioco la dispensa, l’eccezione, il condono. In una parola, l’arbitrarietà. I fondatori degli ordini e degli istituti religiosi dispongono di risorse monetarie ed umane. I loro membri e adepti lavorano e risparmiano per elevare agli altari i loro leader. Si specializzano nella materia e alcuni, o molti, dedicano l’intera vita a questo obiettivo. Ma Teresa di Calcutta o Padre Pio di Pietrelcina non hanno avuto bisogno di denaro. Neppure è stato arruolato personale ad hoc. Roma aveva interesse ad appropriarsi della loro fedele clientela e del loro prestigio. Hanno goduto di esenzione dalle spese, dalle trafile e dai limiti di tempo. Ciò che, in grado superlativo, si applicherà a Wojtyla.
A Roma, una pleiade di funzionari e professionisti lavora nelle beatificazioni e nelle canonizzazioni. 24 funzionari permanenti nel Dicastero, 14 avvocati difensori che sono autorizzati dal papa e monopolizzano questa attività, 2 promotori della fede (“avvocati del diavolo”) con la loro equipe di funzionari, 20 cardinali, 10 relatori, 228 postulatori aggiunti, 70 consultori, moltissimi esperti in varie materie, particolarmente in Medicina, vari notai. (…).
E, prima che il processo arrivi a Roma, l’istruzione in sede diocesana è stata ugualmente complicata e laboriosa, oltre che economicamente costosa. Intervengono il vescovo locale, diversi ecclesiastici, il postulatore diocesano, il notaio. Per far sì che una causa venga presa in considerazione, sarà necessario elaborare una strategia che comprenda biografie pubblicate e distribuite, stampe, bollettini, lettere. Tutto moltiplicato. Milioni di esemplari. Anni, decine di anni, persino centinaia di anni. La speranza non si perde. Può essere che, tra i milioni di persone che invochino il candidato, una guarisca da una qualche malattia in una maniera inesplicabile per gli attuali medici, un buon punto di partenza per legittimare un decreto che avvicini il candidato alla sua beatificazione. Perché i miracoli sono sempre guarigioni. Mai altri eventi ugualmente possibili a Dio come sarebbero l’arresto di uno tsunami di fronte alla popolazione indifesa, l’improvvisa fertilità del deserto a favore di milioni di affamati, la repentina fine di tutte le guerre in nome della concordia o il ritorno alla vita di Gregorio Marañón (medico, scrittore e filosofo spagnolo morto nel 1960, ndr). Per il resto, non si sono tenute in conto le enormi e sconosciute potenzialità della mente umana e delle forze della Natura. Si pensi alle specie animali che riproducono i propri membri amputati.
Così, dopo le fasi informativa (diocesana e romana), giuridica e relativa all’ortodossia, viene l’eventuale constatazione del “miracolo”. È il segnale divino che Roma non si sbaglia. Gli esperti, normalmente medici selezionati, dichiareranno che il fatto straordinario non ha spiegazione nel loro campo di conoscenza. La diocesi in cui è avvenuto l’evento avrà realizzato un’ampia indagine a carico dei promotori. In Vaticano si riuniranno ripetutamente i consultori: discussione, confutazione, difesa. Sarà una determinata équipe di teologi a dichiarare se il fatto debba essere realmente attribuito a Dio per intercessione del candidato. La conclusione dei teologi è fondamentale, praticamente definitiva. La Plenaria dei cardinali della Congregazione voterà che è stato Dio a realizzare il fatto straordinario. Il miracolo si è prodotto. Il papa approverà.
Attualmente, basta un miracolo per essere beatificati e un ulteriore miracolo per venire canonizzati. Fino a pochi anni fa ce ne volevano il doppio. I martiri non hanno bisogno di alcun miracolo per la loro beatificazione. Per ottenere che il candidato già proclamato beato diventi santo, sarà necessario un procedimento complementare molto simile a quello seguito per la beatificazione.
Come ho già scritto, questo complesso procedimento si semplifica e si modifica per volontà del papa e della Curia. Conosco processi iniziati da 200 anni e abbandonati. In questi casi confluiscono il disinteresse di Roma e quello dei promotori. Questi sono solitamente i confratelli del candidato. Hanno deciso di rivolgere le proprie preferenze e le proprie risorse economiche a nuovi o più prestigiosi membri del proprio Ordine come candidati agli altari. Naturalmente, non c’è miracolo perché non c’è pubblicità. E non c’è pubblicità perché mancano i soldi.
«La Teologia è contraddizione in termini perché è assurdo ragionare su Dio. Il mero fatto di pretenderlo dimostra l’orgoglio clericale» (J.L. Sampedro, La sonrisa etrusca, Madrid, 1999, p. 312).
Fa giusto al caso nostro la citazione di José Luis Sampedro. Si tratta di un autore che non è stato né cattolico né anticattolico. Un saggio pensatore. (…). La frase è applicabile al profilo di Giovanni XXV. I conoscitori dell’attuale papa dicono di aver trovato l’origine delle sue così forti decisioni. La sua umiltà e il suo realismo lo portano a calpestare il suolo senza volare. A guardare il cielo senza dominarlo. A pregare Dio senza comprometterlo. A lavorare senza esigere.
Risulta sorprendente, persino scandaloso, che dalla semplicità della venerazione popolare dei martiri – senza miracoli e senza denaro – si sia passati all’armamentario commerciale del XX e del XXI secolo. Dal riconoscimento umano delle virtù eroiche al tirare in ballo Dio con un presunto evento che romperebbe il corso dell’ordine naturale prestabilito. Dal rivolgere l’attenzione al comportamento terreno del cristiano all’attribuire la maggiore importanza a quanto faccia dopo che è morto.
L’ASSURDITÀ DI TIRARE IN BALLO DIO
«Paolo, servo di Cristo Gesù,… a quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione» (Rom 1,7. Cfr anche 1 Cor 1,2, ecc).
“Santo” non è precisamente chi ha raggiunto la vita eterna e gode della visione di Dio. La parola, filologicamente e storicamente, ha il significato di “separato”, eccezionale, puro, dedito al culto. Così la intende la Bibbia (qadós in ebraico, témenos in greco). (…). La santità viene a coincidere con la purificazione. Tutti i cristiani devono essere santi in quanto devono rinunciare al male ed entrare nel Regno annunciato da Gesù.
La soppressione della Congregazione per le Cause dei Santi non viene a negare il senso e l’importanza della santità nei membri della Chiesa. All’interno della genuina tradizione, potranno essere chiamati santi quelli ancora in vita che si distinguano per la loro virtù, per la loro dedizione agli altri, per le loro opere esemplari. È anche giusto ed encomiabile che chi è in vita ricordi e veneri coloro che furono santi, più ancora se diedero la vita in difesa del bene, sempre nella linea evangelica. Pretendere di tirare in ballo Dio nella presunta autenticità di una vita esemplare è un’imprudenza. Di più, un’assurdità, perché di Dio nulla “sappiamo” con certezza assoluta.
E c’è dell’altro. Le canonizzazioni suppongono un’evidente discriminazione per motivi nient’affatto giusti. Chi ha denaro per sostenere il complicato processo potrà essere canonizzato. (…). Mi permetto di ricordare quanto si scrisse decenni fa sul depravato Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo: «Se papa Wojtyla fosse vissuto dieci anni di più, Maciel Degollado sarebbe già beato o santo». Il fatto è che la possibilità di errore è consustanziale all’essere umano, anche al vescovo di Roma e alla sua Curia. Deploriamo che nell’elenco di santi cattolici si leggano nomi di persone per nulla esemplari (alcune non sono neppure esistite), per quanto abbiano realizzato o realizzino “miracoli”. Ragione, più che convincente, per separare Dio dalle nostre decisioni. Giovanni XXV sta facendo la cosa giusta. Congratulazioni, papa Ceballos!
Roma, aprile 2031