“La misura è colma, democrazia a rischio”
di Gian Carlo Caselli
“il Fatto Quotidiano” del 30 gennaio 2011
Il 12 gennaio
Parole coraggiose, necessarie per arginare
una pericolosa deriva già allora in atto. Deriva che, peraltro, è continuata.
Come fosse ossessionato dai suoi problemi giudiziari, il presidente Berlusconi
ha moltiplicato gli interventi volti ad indurre, nei più, l’immagine della
giustizia come “campo di battaglia” fra interessi contrapposti, anziché luogo di
tutela di diritti in base a regole prestabilite; contribuendo così alla
devastazione di tale immagine. La tecnica della ripetizione assillante che
trasforma in verità anche i falsi grossolani continua a essere applicata in modo
implacabile . E dopo aver proclamato la necessità di istituire una commissione
parlamentare d’indagine per accertare se la magistratura opera con fini
eversivi, il capo del governo ha sostenuto (in un videomessaggio trasmesso a
reti unificate) che i Pm devono essere “puniti”, mentre si preannunziano
manifestazioni di piazza contro i giudici “politicizzati” per il prossimo 13
febbraio.
Così la misura è colma. Non la misura della
nostra pazienza (l’impopolarità dei magistrati nelle stanze del potere è
fisiologica e talora necessaria per una giurisdizione indipendente: la provarono
in vita anche Falcone e Borsellino...). Vicina al livello di guardia è la misura
della compatibilità con le regole di convivenza istituzionale proprie di un
sistema democratico.
Nessun leader democratico al mondo ha mai
osato sostenere che “per fare il lavoro (di magistrati) bisogna essere malati di
mente; se fanno questo lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto
della razza umana”. Il presidente Berlusconi invece lo ha sostenuto.
Nessun leader democratico al mondo (ancorché
inquisito) ha mai osato parlare di “complotto giudiziario” ordito ai suoi danni
da magistrati indicati come “avversari politici”. Le reazioni dei personaggi
pubblici inquisiti – all’estero – sono le più svariate, ma sempre contenute in
un ambito di accettazione e rispetto della giurisdizione. Solo in Italia si
lanciano contro la magistratura, senza prove, grottesche accuse di macchinazione
o persecuzione; quando si deve leggere, piuttosto, insofferenza per il controllo
di legalità e per la rigorosa applicazione del principio di obbligatorietà
dell’azione penale.
Nessun leader democratico al mondo coinvolto
in vicende giudiziarie si è mai sognato di difendersi DAL processo anziché NEL
processo. In Italia, invece, il premier ha sperimentato una strategia di
contestazione del processo in sé, quasi una sorta di impropria riedizione del
cosiddetto processo di rottura da altri praticato in passato.
Sotto nessun cielo democratico del mondo il
potere politico ha mai operato sui giudici interventi per ottenere una certa
interpretazione della legge o si è sostituito ad essi nell’interpretazione.
Sarebbe un vulnus intollerabile al principio della separazione dei poteri. Solo
in Italia si registrano simili strappi. Basti ricordare la mozione approvata
dalla maggioranza del Senato il 5 ottobre 2001, per indicare ai giudici
(testualmente) “l’esatta interpretazione della legge” dopo una pronunzia di
tribunale in tema di rogatorie non gradita al Palazzo. Oppure la decisione di
due giorni fa della Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio, che ha
stabilito quale ufficio giudiziario sia competente a procedere in una specifica
indagine (ovviamente qui non si fa questione di merito, ma solo – per così dire
– di titolarità della competenza a stabilire la competenza).
Invece di indulgere a un riequilibrio dei
poteri a danno delle prerogative costituzionali della magistratura (quella
requirente in particolare); sarebbe tempo di pensare, finalmente, a una vera
riforma della giustizia, capace di migliorare l’efficienza del sistema e di
ridurre i tempi dei processi.
Infine, chi parla a vanvera di “partito dei
giudici”, voglia prendere atto che un “partito dei giudici” esiste davvero, ma
nell’accezione dello storico Salvatore Lupo, secondo cui è “attraverso l’impegno
di alcuni e (purtroppo) il martirio di altri, che l’idea del partito dei giudici
prende forma. Nasce dalla sorpresa che, in un’Italia senza senso della patria e
dello Stato, ci siano funzionari disposti a morire per il loro dovere, per
questa patria e per questo stato. Ad ogni funerale, ad ogni commemorazione
prende forma l’idea di per sé contraddittoria dei magistrati come rivoluzionari,
in quanto portatori di legalità”. Ecco: definire “cospiratori” coloro che sono
semplicemente portatori di legalità, non è solo offensivo. È soprattutto
profondamente ingiusto.
(Questo è il testo integrale dell’intervento
del procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli pronunciato ieri
all’inaugurazione dell’anno giudiziario).