Con la croce di legno tra gli operai
di Alberto Papuzzi
“La Stampa” del 10 ottobre 2011
Quando Paolo VI, il 18 settembre del 1965, nominò arcivescovo della Diocesi di Torino Michele Pellegrino del quale si ricorda oggi un quarto di secolo dalla morte - gli ambienti ecclesiastici non nascosero la sorpresa. Perché il nuovo pastore era un uomo di studi, lontano dalla ribalta della vita cattolica. Nato a Centallo (Cuneo) il 25 aprile del 1903, era professore all’Università di Torino di Letteratura cristiana antica (dal 1941-42) e di Grammatica greca e latina (dal 1951-52). Infatti venne considerato una figura di secondo piano e ribattezzato come il «vescovo professore». Niente di più errato, visto che Pellegrino rappresentò una formidabile interpretazione della svolta conciliare nella realtà torinese, al punto che si può parlare di lui come di un rivoluzionario. Manifestò la volontà di cambiamento anche con segni esteriori: volle essere chiamato non «eminenza» ma «padre» e portava al collo una croce di semplice legno. Questo stile era espressione di una scelta radicale in favore della povertà: tutto il suo episcopato (dal 1965 fino al 1977) si ispirò alla lettura del Vangelo come buona novella annunciata ai poveri.
Naturalmente Pellegrino era il vescovo di un’altra Torino e di un’altra Chiesa, rispetto a oggi. Nel corso di quegli anni, la città arrivò a contare oltre un milione e duecentomila abitanti. Era ancora sotto la pressione delle grandi migrazioni ed era ancora la vera company town italiana, con larga parte della forza lavoro concentrata negli stabilimenti manifatturieri (quasi 60 mila operai a Mirafiori). In questa città fordista per antonomasia, il nuovo vescovo indica una scelta senza equivoci: «Quando ci lamentiamo che il mondo operaio ha abbandonato la Chiesa - si legge in una delle sue lettere pastorali - dobbiamo domandarci seriamente se non siamo noi che abbiamo abbandonato il mondo operaio».
Era diversa anche la Chiesa torinese che Pellegrino si trovò a governare, dopo il lunghissimo e tradizionalista episcopato del cardinale Fossati (1931-1965). I fermenti che smuovevano la società civile, aprendo la strada alla contestazione sessantottina nelle università e all'autunno caldo nelle fabbriche, attraversarono il mondo cattolico con novità anche contraddittorie: il Gruppo Abele, Comunione e liberazione, le comunità di base, i preti operai, la Gioc e il Sermig. Il vescovo riorganizzò la struttura della diocesi, per adeguarla a queste nuove esigenze. Il fatto forse più dirompente fu la cancellazione dei cappellani di fabbrica e la trasformazione del loro centro nella Pastorale del lavoro.
Fedele ai giovannei «segni dei tempi», Pellegrino fu protagonista nel 1973 di un fatto destinato a creare scalpore: la cosiddetta vicenda della tenda rossa. Nell’ambito di una vertenza sindacale dei metalmeccanici, particolarmente dura, venne eretta una tenda degli scioperanti, davanti alla stazione di Porta Nuova. Nacque l'idea di far dire una messa al vescovo, per coinvolgere i cattolici. Si
oppose però il prete operaio Carlo Carlevaris: l'iniziativa gli appariva una indebita strumentalizzazione. Ma si offerse di chiedere a Pellegrino di incontrare i lavoratori in sciopero. Il presule accettò. Andò nella piazza, parlò coi manifestanti e tenne un discorso. Mentre ripartiva, i giovani intonarono Bandiera rossa. «Così potranno dire che sono stato ricevuto al canto dei comunisti», sorrise Pellegrino. Da quel giorno, qualcuno lo chiamò il «vescovo rosso».
Il problematico rapporto con il mondo del lavoro è il contenuto fondamentale della lettera pastorale Camminare insieme , promulgata nel 1971, che rappresenta il grande lascito spirituale di Michele Pellegrino, la sua eredità. Messe in luce, senza reticenze, le difficoltà che creavano motivi di sfiducia, sia fra i preti che fra i laici, la lettera ancorava «annuncio evangelico» e «conversione alla fede» a tre valori di base: povertà, libertà e fraternità. Introducendo il concetto di «povertà di classe», Pellegrino provocò reazioni polemiche: Il «Sole 24 ore» lo accusò di «predicare il vangelo di Carlo Marx». Le polemiche si spensero, almeno dentro il mondo ecclesiale, quando Paolo VI mostrò di apprezzare il documento e si compiacque con il suo vescovo. Quindi l’uscita di scena nel 1977, il ritiro nella casa parrocchiale di Vallo Torinese, un ictus nel 1983 e la morte nel 1986.
Venticinque anni dopo che cosa resta nel mondo cattolico torinese di quell’esperienza? Il radicalismo cristiano che l’animava non è oggi più pensabile. Tuttavia Pellegrino ha plasmato due caratteri precisi del cattolicesimo torinese. Infranse la contrapposizione fra vertice e base, sorreggendo i movimenti dal basso, anche di segno opposto. E’ con lui, infatti, che vedono la luce il Sermig fondato da Ernesto Olivero nel 1964 e il Gruppo Abele creato da don Luigi Ciotti nel 1965. Una seconda impronta è l’attenzione di Pellegrino ai poveri della Terra, con il viaggio in Brasile per incontrare monsignor Camara e visitare favelas e lebbrosari. Non a caso la Chiesa torinese è ancora la più impegnata, in Italia, nell’accoglienza degli immigrati clandestini e non.