Benvenuti nel Paese che ha smarrito la fede "tradizionale"
di Giancarlo Zizola
“la Repubblica” del 7 luglio 2011
Prendiamo con le molle qualsiasi proposta analitica a rischio di "determinismo geografico" che dia figura al credo religioso, succede ovunque che gli atteggiamenti verso il bisogno religioso, il Vangelo e i suoi testimoni non coincidano con quelli più contenuti e non di rado anche critici sulla Chiesa, i dogmi, l'autorità e l'istituzione. Certo, il religioso non segue, nella sua estrema e inafferrabile complessità, uno schema prestabilito Nord-Sud. Ma i dati sono quelli che sono, e non sono solo italiani: i grossi numeri del cristianesimo crescono sempre più a Sud, in Africa e in Asia, e in questo viaggio si ritrovano da qualche tempo per compagni anche i cattolicesimi delle grandi aree della cristianità storica del Nord che la crisi sta riducendo rapidamente a minoranze all'interno di società secolarizzate.
È un fenomeno globale che scuote ovunque la più potente religione del pianeta. Ma questa discesa verso i nuovi centri del cristianesimo – che ha oggi i due terzi dei suoi aderenti in Africa, Asia e America Latina (una proporzione che dovrebbe aumentare al 75% entro il 2025) – non sembra sufficiente a giustificare senza riserve l'ipotesi di un secco o tendenziale squilibrio tra il Nord liberale e il Sud conservatore.
Un'ipotesi che lascerebbe alle Chiese del Sud il distintivo di contenitore di una sacca residuale di cattolicesimo subculturale, tradizionalista, carismatico, miracolistico o forse anche celebrato popolarmente in superstizioni e magie, oppure in una lettura fondamentalista della Bibbia. Troviamo anche al Nord, del resto, espressioni "sudiste" di cattolicesimo, e troviamo ovunque questa nuova eresia di un cattolicesimo post-cristiano, che rielabora un'identità religiosa di tipo etnico e destorificato, che nuota fra altari a Padre Pio e liturgie celtiche al dio Po, tra riferimenti mitologici pre-cristiani e caccia agli immigrati, lasciando da parte la figura del Samaritano come qualificativa del cristianesimo, più della messa della festa comandata. E serpeggia ovunque, sulle macerie di un cattolicesimo rimasto troppo pigramente fissato sulla sua forma tridentina, un modello di religione da "atei devoti" che continua imperterrita il tentativo di integrare Dio come chiave di volta del sistema borghese, del tutto funzionale agli interessi dei poteri dominanti. La stessa fede in Dio finisce per essere ridotta, in questo contesto culturale, a distintivo identitario, un modo per rivestire gli interessi col manto religioso, ciò che rende possibile - è accaduto - invocare il nome di Dio e la difesa delle "radici cristiane" dell'Europa per giustificare politiche oltraggiose verso il prossimo, il forestiero, il povero, l'immigrato, il Rom, il diverso. Una deriva pubblica che rivela le lacune e i ritardi dell'evangelizzazione in un paese sedicente "cattolico". Sono fenomeni sufficienti a rendere sospetto il culto come indicatore affidabile dell'appartenenza cristiana.
È precisamente questo viluppo contraddittorio che viene chiamato in causa dal collasso delle strutture della cristianità stabilita, che pure continua imperterrita ad autocelebrarsi sul ciglio del burrone. La Chiesa che affiora da questi grafici è una grande e gloriosa istituzione fortemente stanca e assopita sulla propria potenza burocratica, ma che è coinvolta suo malgrado in un processo di mutazione storica dovuta più ancora ai cambiamenti sociologici e culturali che ai problemi interni dell'istituzione. Fine di un cristianesimo di mera tradizione sociale che si accumula sull'indifferenza religiosa: è un paesaggio che si allarga anche in Italia. Declino delle pratiche religiose, riflusso delle osservanze, de-istituzionalizzazione della religione a confronto con la cultura dell'individuo. Per analoghi sintomi in Francia, Danièle Hervieu-Léger coglieva, più che una disfatta assoluta, la tendenza a ricomporre briciole e pezzi del dispositivo cattolico in "nuove combinazioni di senso, che hanno poco a che vedere con l'apparato cattolico".
Nella stessa direzione, il gesuita Bartolomeo Sorge coglieva la crisi religiosa come un segnale della fine del "regime di cristianità": la sovrapposizione tra fede e politica, trono e altare, spada e crocifisso aveva caratterizzato i secoli "costantiniani" ma ora essa "appare definitivamente superata", sia sul piano storico (a seguito dei processi di secolarizzazione) sia su quello teologico (per il Concilio Vaticano II). In questo approccio la crisi è vista come strumento di purificazione, riporta la Chiesa all'originaria forma minoritaria di "piccolo gregge". Le spoliazioni cui è obbligata, e sulle quali si mostra indecisa, sono solo all'inizio.
Padre Sorge lamenta che la comunità ecclesiale non si sia ancora rassegnata a mollare l'osso, anzi "si continua come se nulla fosse accaduto", come se la gente fosse ancora tutta credente ed evangelizzata, come se i valori morali cristiani fossero condivisi dalla stragrande maggioranza. Finché la devastazione obbligherà la Chiesa ad aprire gli occhi e a capire che solo liberandosi dalle sicurezze temporali potrà tornare ad annunciare liberamente il Vangelo. Del resto lo stesso Ratzinger non aveva dubbi, in un'intervista del 1997, a suggerire di abbandonare l'idea di chiesa nazionale o di massa: "Davanti a noi è probabile che ci sia un'epoca diversa - diceva - in cui il cristianesimo verrà a trovarsi nella situazione del seme di senape, un gruppo di piccole dimensioni, apparentemente ininfluenti, che tuttavia vivono intensamente contro il male e portano nel mondo il bene".