I convertiti d'Oriente

 

di Raimondo Bultrini

 

la Repubblica” dell'11 luglio 2011

 

Dall'India all'Indonesia passando per la Thailandia: gli evangelici alla conquista dell'Asia. Missionari battisti, metodisti, presbiteriani, avventisti e "rinati" stanno conquistando l'Asia. E con i dollari dei donatori americani stanno cambiando il volto delle tribù di una vasta area nel Sud Est. Un processo di conversione ormai giunto a uno stadio sorprendentemente avanzato. Ma c'è chi denuncia l'omologazione religiosa e culturale.

 Saesai Pattana (Thailandia del Nord) «Gesù è arrivato, abbandona il diavolo». «Credi in Gesù, liberati dall'inferno».

Sono piccoli cartelli gialli, spesso confezionati a mano, e plastificati per non farli scolorire dalla pioggia monsonica di queste terre tribali, isolate nel cuore del Triangolo d'Oro, nel Nord Est della Thailandia, al confine con la Birmania e il Laos.

Scritti in thai e soprattutto nelle lingue etniche, i "moniti divini" sono appesi su pali di legno un po' ovunque, lungo le strade provinciali e in quelle, più remote, verso i villaggi rurali come Saesai Pattana e Huey Yo. Gli autori sono i missionari di fede battista, metodista, presbiteriana, avventista del Settimo giorno, "rinati" in Cristo, e i tanti altri che stanno cambiando, coi dollari dei potenti donatori americani, il volto e la cultura delle tri tradizionali di una vasta area dell'Asia.

Athu Pochear, una guida dell'etnia animista, tibeto-birmana Akha, ci indica i nuovi insediamenti sorti nel bel mezzo della giungla a nord di Chiang Rai, la cittadina della provincia incuneata nel Triangolo d'Oro.

Di tanto in tanto, Athu contempla in silenzio le radure, create dal disboscamento della foresta pluviale, e dove ora svettano campanili di chiese bianche di cemento con annesso ostello o collegio cristiano, e lussuose ville delle famiglie dei missionari.

«AChiang Rai città - racconta – ci sono tre grandi scuole missionarie. La maggiore è la Tiewuy taya Kom, con tremila alunni, in gran parte dei villaggi tribali; poi c la Saha Sat, che ne ha 2300, e oltre 700 sono piccoli dell'etnia Akha. Però, se si calcola l'intera provincia, gli istituti sono centinaia, con un numero incalcolabile di ostellio scuole residenziali. Alcune congregazioni ne gestiscono 200, altre 400, altre ancora 80. È impossibile controllarli tutti». Gli Akha animisti - una tribù sparsa in quattro Stati del Sud Est asiatico, fino al lontano Vietnam non sono gli unici a denunciare un processo di conversione, giunto a uno stadio sorprendentemente avanzato. Tuttavia, altre etnie hanno perso da tempo la voglia di battersi contro l'omologazione religiosa e culturale. Una "nuova alba missionaria", così la definiscono le chiese evangeliche americane, che sui loro siti Internet richiedono specializzazioni manageriali per gestire in Oriente parrocchie e scuole, di villaggio e internazionali, oppure cliniche dove in parecchi casi si somministrano farmaci solo ai convertiti.

È una fase ben diversa dall'epopea romantica dei preti cattolici, che impiantarono i primi ospedali nel Siam, curarono epidemie di vaiolo, rischiarono la propria vita tra persecuzioni, pestilenze e guerre, come Clemente Vismara, il celebre "santo birmano", beatificato il 26 giugno scorso. L'evangelizzazione del Sud Est asiatico è atipica anche rispetto ad altri Paesi dove la missione è tuttora associata al martirio e alle persecuzioni, ad esempio la Cina, l'induista India, o l'islamica Indonesia. In Thailandia, infatti, il governo buddista lascia volentieri ai ricchi cristiani farang - gli stranieri- il compito di prendersi cura dei bambini indigeni animisti, mai registrati all'anagrafe. Athu è attivista di una Ong di nome Afect, e perciò ha studiato a fondo il fenomeno: «Le scuole cristiane

- spiega - insegnano la Bibbia e i Vangeli, oltre alla lingua inglese e thai. In più, vestono e nutrono i bambini, e se questi si comportano bene, otterranno anche una nuova identità e un lavoro».

Vista, però, la povertà dei villaggi etnici, viene naturale chiedergli il perché di tanta opposizione agli investimenti missionari, se questi portano benessere. Athu ride. «Vedi , tra gli alberi e le case di sinistra? - dice, indicando l'ingresso del villaggio di Huey Yo.

«Non c'è un muro, ma è come se ci fosse, ed è invalicabile. Gli Akha convertiti vivono da quel lato, negli edifici in muratura; gli Akha tradizionali, invece, dall'altro, sotto i tetti di foglie pressate. È successo in un battibaleno - Athu schiocca le dita -. Dall'arrivo dei missionari pieni di dollari, si sono diffusi nei villaggi sentimenti prima quasi sconosciuti, come la gelosia e l'invidia per le migliori condizioni di vita dei propri vicini convertiti. Ora che sono cristiani, quelli non partecipano più nemmeno all'acquisto del maiale da dividere durante le feste rituali».

Ogni villaggio si è spaccato in due, diviso tra una fede cristiana ricca, che promette anche salvezza eterna, e quella in uno spirito del bosco, che al massimo garantisce la sopravvivenza quotidiana. Dice Athu: «Lo spirito del bosco è la nostra vita; noi abbiamo sette nomi diversi per ogni tipo di bambù, con il suo Yaw Shahl, il potere che non si vede ma c'è.

Questo - aggiunge, indicando un arbusto lungo e dritto - lo usiamo per riempirlo di riso dolce bollito e glutinato. Questo più grande può reggere il pavimento per dieci elefanti... e quest'altro protegge certe erbe medicinali e alimentari. Ora lei capisce perché diciamo che gli Akha scompariranno quando cadrà l'ultimo albero?». Athu vive un altro conflitto condiviso da molti tra gli stessi anziani della tribù, come il padre novantenne che gli ha insegnato tutto ciò che conosceva,

dai riti ai nomi di ciascun antenato: Yoului, Ato, Jupoh, A-ju, A-pa. «Molti figli degli Akha adesso si chiamano John, Josepho Samuel», dice. «Dai villaggi, si sono spostati alle periferie delle città dove le scuole, specialmente quelle cristiane, sono più grandi e il lavoro più redditizio». «Intanto nei villaggi sempre meno vecchi conoscono e cantano ancora le storie dall'origine della tribù e del mondo - Athu si rabbuia -. Se nessuno resterà ad ascoltarli, se ne perderà memoria, perché noi non abbiamo un alfabeto:i nostri anziani dicevano che la scrittura fissa il mondo, e non lo lascia

scorrere. Dovevamo mandare a memoria la forma e il nome di ogni pianta, ricordare le storie utili per diventare uominie capi di famiglia, per sfamarci e imparare a scappare dalle guerre».

«Oggi, che tutto cambia - riflette - anche i saggi della mia tri hanno capito che è giunta l'ora di fare qualcosa per conservare la conoscenza, perché i missionari convincono i bambini akha che Cristo può insegnarci molte più cose e "redimere" la nostra religione. Però - insorge Athu - anche se avessero ragione, perché spezzare la nostra storia, dividere le nostre famiglie? Infatti, dopo aver completato le scuole cristiane, i giovani minacciano i propri genitori: non torneranno a trovarli se continuano a vivere col diavolo e gli Yaw Shahl in casa. E spesso non tornano più». Il fenomeno della cristianizzazione degli Akha è il più recente, ed è ancora in corso, mentre i Karen, i Kachin, i Chin, moltissimi Shan, Lahu, Lisu, Hmong hanno cambiato credo e tradizioni già da tempo. Non ci sono state forzature violente, né guerre religiose, ma i nuovi crociati del 2000 - Crusader for Christ

- hanno il peso e i soldi «delle potenti lobby americane coinvolte in politica», dice il sindaco di uno dei villaggi non convertiti. Quando, all'inizio del secondo millennio, Athu Pochear s'accorse che il fenomeno s'accelerava con l'arrivo di missionari fondamentalisti anche da Singapore, Taiwan e Corea del Sud, lui, allora poco più che trentenne, avviò un censimento, andando col motorino o con un vecchio pick up da Chiang Rai agli insediamenti akha mai censiti per mancanza di carte d'identità e certificati di proprietà delle terre ancestrali.

«Appena nove anni fa, nel distretto di Mae Souoei - racconta - solo 22 villaggi su 243 erano del tutto convertiti. Oggi il numero è cresciuto vertiginosamente: tra i 180 e i 200. Se capovolgiamo il calcolo, su un totale di 263 villaggi akha con 70mila anime, soltanto 36 seguono la via tradizionale».

A parte l'oscura tradizione ormai in disuso che imponeva l'allontanamento di una famiglia coi gemelli per evitare disgrazie al villaggio, gli Akha possono considerarsi uno dei popoli più pacifici e saggi dell'Asia. «La nostra cultura e tutte le altre legate così strettamente alla natura - spiega Athu - sono vulnerabili perché risentono della società meccanica attorno. Ma un giorno tutta la razza umana avrà bisogno delle antiche conoscenze per sanare le ferite del progresso. Magari non sforneremo tanti ingegneri di computer, ma se le missioni ci rispettassero e ci aiutassero come fanno con i convertiti, i nostri e i loro figli saprebbero come far rivivere la foresta, costruire un villaggio o un riparo dai cicloni, quando piantare il riso e dove trovare le erbe medicinali». Lo sciamano Abobe Yulu porta regolarmente gruppi di ragazzi e ragazze akha nella foresta, a insegnare loro tutto quel che c'è da sapere di riti, erbe e sopravvivenza nella natura. Suo figlio non va mai con loro nella


 

giungla, e questo lo rattrista perché «molti giovani fanno lo stesso dopo essere stati educati nelle scuole cristiane».

A volte riaffiorano le denunce di uno sfruttamento a fini commerciali da parte delle missioni, l'arruolamento di migliaia di "orfani" - che in realtà hanno almeno uno se non entrambi i genitori, ignari di dove siano finiti i figli - e persino casi di pedofilia. «Però, non possiamo fare di tutt'erba un fascio - avverte Bernardo Cervellera, direttore del sito di informazione cattolica Asianews. «A

fronte dei comportamenti ambigui di frange radicali, molta gente emarginata e povera comincia con la nuova dottrina un percorso, che la porta alla consapevolezza dei suoi diritti, come succede in India contro il sistema delle caste».

Secondo i dati dell'enciclopedia cristiana Barrett, a fronte di 6000 nuove conversioni al giorno nel Nord America, ce ne sono 76 mila nel resto del mondo, specialmente in Asia: è il «numero più alto nella storia del Cristianesimo», come sottolinea il Movimento di Losanna ispirato al celebre pastore americano e predicatore televisivo Billy Graham. Al primo Forum del '74, c'erano i delegati di 2700 chiese evangeliche da 150 Paesi; all'ultimo Forum del 2010 in Sudafrica, gli Stati rappresentati erano 190: il 27 per cento in più.

È un fenomeno transnazionale, che sfida la stessa crisi economica mondiale. Nello statuto di queste congregazioni evangeliche, c'è spesso il compito di preservare la cultura locale. Ma di tutto ciò, sui loro siti web, compare ben poco: al massimo foto di famiglie in costume tribale, o racconti edificanti di vita missionaria. «La realtà è che i ragazzi akha - conclude Athu - non conoscono più nemmeno i nomi delle tante specie di bambù. Hanno perso lo spirito del bosco. Rischia di svanire tutto ciò su cui si fonda la nostra cultura».